L’Uli e il corridoio umanitario

aggiornamento: il rapporto Spini (vai al link)

Al link sopra indicato, un documento classificato “segreto” redatto per Intelligence Service britannico dall S.Ten. Giorgio Spini, dopo la guerra illustre storico, aggregato alla 2a Brigata corazzata dell’8a Armata britannica che ha liberato Forlì sfondando la Linea gotica.  E’ inviato da Forlì e datato 13 novembre 1944, quattro giorni dopo la liberazione, e illustra chiaramente la situazione del movimento di resistenza nel forlivese. In diversi punti parla diffusamente di Tonino come uno dei più influenti personaggi.

Il corridoio umanitario
(da Questa città n. 13, marzo 2013)

Dopo l’8 settembre 1943: l’armistizio, l’apertura dei campi e la fuga dei prigionieri alleati che vanno a ricongiungersi ai propri comandi; il ruolo delle popolazioni romagnole nella creazione di un vero “corridoio umanitario”…

Oscar Bandini, di S. Sofia, ed Ennio Bonali, forlivese, sono impegnati nella ricostruzione storica della partecipazione delle popolazioni romagnole dell’alto Bidente al soccorso dei prigionieri di guerra alleati in fuga dai campi di prigionia dopo l’8 settembre 1943. Sono autori di numerose pubblicazioni di carattere storico fra cui La Romagna e i Generali inglesi (Ed. Franco Angeli,1982) della quale Ennio Bonali è anche curatore.

Cominciamo descrivendo la situazione dell’antifascismo nel forlivese nei giorni attorno al 25 luglio del ’43, quando Mussolini fu destituito dalla Monarchia. Quali erano le forze in campo e chi rappresentavano?

Bonali. Fin dagli ultimi anni 30 nel territorio romagnolo si stava formando un’organizzazione antifascista: l’Unione dei Lavoratori Italiani (Uli). Questa comprendeva un arco di forze della sinistra democratica, soprattutto repubblicani, liberalsocialisti e azionisti. Nei primi mesi del 1943, l’Uli iniziò il lavoro clandestino che avrebbe dato vita a La voce del popolo, giornale che esordì il primo maggio dello stesso anno, nonostante varie persecuzioni ed arresti. Ne La voce del popolo l’Unione esponeva i suoi obiettivi ideali e politici sui quali, nel suo saggio ne La Romagna e i generali inglesi, Dino Mengozzi fa una disamina molto puntuale. Particolarmente pregevole l’ultima parte del testo, in cui compara la linea politico-ideologica dell’Uli con i grandi filoni del pensiero liberale e socialista. Il 25 luglio del 1943 a Forlì e in Romagna era quindi presente un insediamento antifascista democratico. Proprio quel giorno ebbero luogo manifestazioni di piazza che videro alternarsi, sul balcone del palazzo comunale, personaggi appartenenti per cultura e per generazione al pre-fascismo. Fra questi, il socialista Alessandro Schiavi e i repubblicani Aldo Spallicci e Ciro Macrelli. In questa fase i comunisti non avevano ancora un ruolo guida, erano in posizione minoritaria sia dal punto di vista politico sia da quello organizzativo. Alcuni sarebbero emersi solo alcuni mesi dopo dal confino e una minoranza aderì addirittura all’Uli. In questo scenario l’8 settembre del ’43, giorno dell’armistizio fra il governo Badoglio e gli alleati, costituì un momento di rottura. A partire da quel momento s’innescarono due processi paralleli. Da un lato l’iniziale evoluzione unitaria dell’organizzazione antifascista locale che, a quel punto, cominciò a ricomprendere anche i comunisti. Dall’altro la grande fuga dei militari alleati, fino a quel momento prigionieri in una sessantina di campi, sparsi prevalentemente nell’Italia centro-settentrionale. L’8 settembre del ’43 erano circa 85mila. Dopo l’armistizio molti di questi campi furono aperti e i prigionieri si diedero alla fuga. Sulla base dell’accordo sancito l’8 settembre, il governo italiano avrebbe dovuto prestare protezione ai prigionieri alleati. Su questo Churchill si impegnò particolarmente perché questi uomini, alla mercé dei tedeschi che stavano invadendo l’Italia, lo preoccupavano molto. Si temevano stragi, eccidi e l’opinione pubblica in patria: le democrazie sono sensibili al suo giudizio e questo era quindi un tema rilevante. Nel caos generatosi dopo l’8 settembre con la fuga della Monarchia, le prime forze antifasciste che avevano un germe di organizzazione cominciarono ad agire. A nord del Po furono soprattutto gli azionisti di Ferruccio Parri a mobilitarsi con una rete organizzativa, la rete Bacigalupi, che riuscì a trasferire in Svizzera circa 3.000 militari alleati. Più a sud, in particolare in Romagna, che fu uno snodo di questo esodo lungo le vie appenninica e litoranea, si organizzarono soprattutto gli uomini dell’Uli. Ne La Romagna e i generali inglesi trattammo di questo, in rapporto agli alti ufficiali.

Cosa accadde in Romagna?

Bandini. Tre erano i campi di prigionia vicini alla Romagna: Arezzo, Poppi e Vincigliata, sulle prime colline di Fiesole. Bonali. In particolare, nel campo di prigionia situato nel castello di Vincigliata erano detenuti numerosi alti ufficiali e generali britannici: un campo d’élite. Dal 9 settembre le sue porte furono aperte ai prigionieri, fra cui c’erano 11 generali e 14 alti ufficiali. Il gruppo comprendeva anche tre generalissimi, che definiremo in questo modo per il loro livello di assoluto vertice nelle gerarchie militari britanniche. Parliamo di Philip Neame, catturato in Nordafrica nel 1941, pochi giorni dopo essere stato nominato l’ufficiale più alto in grado nel bacino del Mediterraneo; di sir Richard O’Connor, specialista della guerra nel deserto, che aveva messo in rotta le truppe italiane comandate da Graziani, e del maresciallo dell’aria Owen Tudor Boyd, precipitato con il suo aereo in Sicilia e poi catturato. I tre, insieme ad altri ufficiali, furono portati prima ad Arezzo e poi, dato il rischio di cattura da parte dei tedeschi, al monastero di Camaldoli. Proprio a Camaldoli ebbe inizio il lungo percorso, attraverso la Romagna, che li porterà a ricongiungersi con le truppe alleate a sud, la vigilia di Natale del ’43. Dal 9 settembre alla vigilia di Natale: un’odissea. La prima tappa del trasferimento fu a Seghettina, un insediamento rurale nella zona della foresta della Lama, dove rimasero oltre un mese.

Sappiamo che il priore di Camaldoli mandò frate Leone Checcacci a scortare i generali e a distribuire il gruppo degli inglesi fra i vari poderi della montagna. I generalissimi e alcuni altri andarono a Seghettina. Poi frate Leone proseguì il cammino fino a Santa Sofia, incontrò Torquato Nanni e gli disse: “Guarda che lassù c’è questo gruppetto di personaggi”. E lì cominciarono gli incontri fra i generali e una serie di esponenti dell’antifascismo locale.

Alcuni partigiani a Castellonchio

Bonali. Ecco, è interessante il fatto che il priore di Camaldoli abbia coinvolto direttamente, attraverso padre Leone, il leader antifascista della zona, l’anticlericale Nanni, nella prospettiva di un intervento politico ma anche umanitario nei confronti dei prigionieri alleati. A Seghettina arriva Nanni, che rappresenta la componente storica laico-socialista della Romagna toscana. Con lui arriva anche un giovane ufficiale del regio esercito italiano, Bruno Vailati. Vailati è a Santa Sofia perché, dopo aver combattuto a Roma contro i tedeschi l’8 settembre, viene in Romagna ospite del figlio dell’avvocato Nanni, Torquatino, che era stato suo compagno di studi all’Università di Bologna. Vailati parla correntemente l’inglese, essendo nato ad Alessandria d’Egitto, e diventa un tramite importante per la comunicazione con i generali di cui uno solo, il generale di brigata Todhunter, parlicchia l’italiano. Neame parla in francese, come racconterà poi Pietro Spada leader dell’Uli, quindi il ruolo di traduttore di Vailati diventerà un elemento importante nell’organizzazione della fuga e della persuasione dei generali in merito alla buona fede del gruppo di antifascisti. Fondamentale è anche l’incontro con Tonino Spazzoli, che in quel periodo è ubiquitario… Tonino Spazzoli lo trovi in tutte le azioni e iniziative a favore degli alleati in fuga, e ancora dopo nel movimento partigiano, assieme al fratello Arturo, più giovane di 20 anni, che sarà uno dei protagonisti di una seconda fuga di generali. Assieme a Vailati e Spazzoli arriva Giusto Tolloy, maggiore dello Stato Maggiore italiano e leader militare del Fronte Nazionale, il braccio militare unitario delle forze antifasciste romagnole, inizialmente egemonizzato dall’Uli. Nel dopoguerra Tolloy diventerà addirittura ministro socialista. Insieme a lui ci sarà Pietro Spada, forse il più ideologicamente ferrato del gruppo. Il fior fiore dell’antifascismo democratico romagnolo incontra i generali a Seghettina e nel corso della successiva trafila. Poco dopo gli inglesi incontrano anche Leandro Arpinati; e questo è un particolare importante. A inizio ottobre Arpinati, pochi giorni prima del suo incontro coi generali inglesi a Seghettina, viene convocato da Mussolini alla Rocca delle Caminate. L’intenzione del Duce è quella di costituire il proprio governo nel nord, quello della Repubblica Sociale, ed offre ad Arpinati il ruolo di Primo Ministro. Mussolini è appena tornato dalla Germania dove è stato a colloquio con Hitler e nell’incontro con Arpinati gli rivela fatti importanti, strategici. Ad esempio l’avvio della costruzione delle “armi segrete” tedesche, le V1 e le V2, gli studi sulle armi atomiche e il dissenso strategico fra i generali tedeschi Rommel e Kesserling sulla conduzione della guerra. Quando Arpinati incontra i generali inglesi riferisce quelle informazioni; ne scrive Neame nelle proprie memorie, in verità mostrando poca stima per il personaggio. Lo definisce un boss, un fascista opportunista. In realtà Arpinati si era distaccato da diversi anni dal fascismo, era stato mandato al confino. Però l’impressione del generale inglese è che stia cercando di darsi una copertura, di tenere il piede in due scarpe, perché ormai annusa che il fascismo sta precipitando.  Comunque, Neame tiene assolutamente conto di quanto ascoltato e, rientrato nelle linee alleate, informa Alexander di queste rivelazioni che ebbero poi un impatto rilevante sulle future strategie angloamericane. Arpinati farà una fine tragica, ucciso da partigiani assieme a Torquato Nanni, alla liberazione di Bologna.

Dunque da Seghettina inizia il percorso che, dopo una lunga serie di peripezie, porterà i generali in salvo oltre il fronte. Nella trafila un ruolo fondamentale lo ebbero l’atteggiamento e la partecipazione attiva delle popolazioni romagnole.

Famiglia del podere Casella, Strabatenza

Bonali. La fuga dei generalissimi dall’alto Bidente ebbe inizio, mi pare, il 31 ottobre o il primo novembre 1943, seguendo un incredibile itinerario a zig-zag. Prima furono condotti dal mugnaio Maurizio Milanesi fino al Santuario della Verna, che diede loro ospitalità. Infine, in bicicletta e con un percorso spossante e pieno di avventure, colpi di scena, incontri con mpattuglie tedesche e terrore d’essersi persi l’uno con l’altro, raggiunsero la nostra riviera. Nel frattempo Bruno Vailati era andato altrettanto avventurosamente al sud ad avvertire lo stato maggiore inglese della presenza dei generali e dell’esigenza del loro salvataggio. Era poi rientrato recando un piano di soccorso che prevedeva l’imbarco da parte di un mezzo navale alleato. Però, nonostante tentativi reiterati, notti passate in barca al largo, avventure incredibili, nessun mezzo inglese li andò a raccogliere, neanche un peschereccio. I generali tornarono quindi a Forlì con un itinerario che li condusse addirittura nella casa di campagna degli Spazzoli, vicino a Coccolia. Poi tornarono ancora nella zona di Milano Marittima, dove emerge un’altra figura importante, un uomo il cui ruolo è stato sottovalutato, dimenticato: Ettore Sovera, il proprietario del Mare Pineta, il primo grande hotel di Milano Marittima. Con un coraggio incredibile, Sovera nutrì, accolse e protesse nel proprio albergo i generali inglesi, nonostante il comando tedesco ne avesse occupato il piano terra proprio in quei giorni. C’è un racconto di colore in cui il cantante Teddy Reno, di famiglia ebrea, al tempo rifugiato nella soffitta dell’albergo, narra del proprio terrore al sentire il passo dei tedeschi nei corridoi. Lo stesso generale Neame, riferendosi a Sovera, scrisse nelle proprie memorie qualcosa del tipo: “Se catturano noi ci riportano al campo di concentramento, ma questo finisce impiccato con la sua famiglia e i suoi bambini, chi glielo fa fare?”. Ettore Sovera deve essere assolutamente valorizzato. Bandini. Non si deve dimenticare quello che è successo dopo, perché oltre al gruppo dei generalissimi, che terminarono la loro fuga alla vigilia di Natale del ’43, ci sarà una seconda fuga di alti ufficiali in marzo, ma soprattutto ci furono centinaia di soldati semplici che passarono da quello che abbiamo definito il corridoio umanitario romagnolo, rappresentato dal crinale che va dal passo dei Mandrioli a quello della Calla. A favorire la fuga dei prigionieri alleati non furono soltanto le favorevoli situazioni orografiche: l’elemento fondamentale è che le popolazioni locali erano d’accordo nel fornire assistenza. Erano popolazioni ai margini dello sviluppo, gente poco acculturata, le strutture sociali di esistenza erano in gran parte dettate dai ritmi della chiesa, dalle confraternite di origine seicentesca, dove i capifamiglia avevano un ruolo, diciamo, centrale. Quello che sceglieva il capofamiglia andava bene…Io e Ennio abbiamo calcolato, anche se un po’ sommariamente perché i dati demografici ancora sono incompleti, che nel periodo che va dall’ottobre del ’43 fino alla tarda primavera del ’44, almeno trecento persone siano state coinvolte in quest’operazione di salvataggio. Le persone coinvolte sono tutte elencate e il loro ruolo descritto e indagato nelle schede dell’Allied Screening Commission (Asc), che abbiamo avuto la sorte di recuperare in parte. Dai racconti degli stessi alleati emerge persino il ruolo dei bambini, delle donne, che con i loro sistemi di segnalazione s’inserivano in ogni piega del reticolo di controllo tedesco e fascista. La paura maggiore era quella delle spie, di quelli che facevano il doppio gioco. Bonali. Il generale di brigata Combe, ospite per 90 giorni a Trappisa di sotto, nella parrocchia di Strabatenza, racconta episodi commoventi di dedizione della popolazione. Durante i rastrellamenti le donne e i bambini lo accompagnarono nel bosco, lo fecero fuggire; racconta anche che mentre un generale è nascosto in soffitta, arrivano i tedeschi e i fascisti e la donna di casa fa piangere il bambino, gli dà i pizzicotti, lo fa urlare per distrarli, perché quelli non salgano. Nessuno dei fuggiaschi viene denunciato, a dimostrazione della solidarietà del territorio. Bandini. Le 300 persone che abbiamo calcolato occupavano poderi che si trovano nella valle di Pietrapazza e immediatamente attorno, nelle parrocchie di Strabatenza, Rio Salso, parte di Casanova dell’Alpe e di Ridracoli. In quell’area circa la metà della popolazione si è data da fare attivamente per i prigionieri alleati in fuga e l’altra metà è stata solidale, sapeva, ha dato da mangiare, ha portato il cibo. Bonali. Sono interessanti le schede della Asc, la commissione alleata di verifica costituita ad hoc nel giugno ’44 per rimborsare i costi sostenuti dagli italiani per il salvataggio degli ex prigionieri in fuga. Anche se con linguaggio burocratico, emerge il riconoscimento nei confronti di quelle persone. Oltre a questo c’è il ruolo di Torquato Nanni, già citato prima, e di certi preti, in particolare Giovanni Spighi a Biserno e Tommaso Mazzoli a Strabatenza. C’è l’azione, soprattutto in un periodo un po’ più tardo, inizio del ’44, di alcuni personaggi: Ermenegildo Corzani -che poi diventerà sindaco- e Giovanni Lotti. I due erano membri della cellula comunista di Santa Sofia, una delle più forti della provincia di Forlì sin dagli anni 30, come dimostra il numero elevato di santasofiesi condannati dal tribunale speciale. Dalle schede risulta che si diedero un gran daffare per confermare e testimoniare agli alleati il lavoro svolto dalle popolazioni, dalle famiglie. Lo storico inglese Roger Absalom, che ha studiato in modo approfondito il rapporto tra le popolazioni italiane e gli alleati in fuga, scrive: “Le organizzazioni che si schierarono sin dal primo momento per il salvataggio sono le organizzazioni cristiane, socialiste, azioniste”. Nel nostro caso si tratta dell’Uli, un conglomerato di repubblicani e socialisti, soprattutto. Il movimento comunista in quanto tale, in quanto organizzazione, non si mobilita e, aggiunge ­Absalom, con espressione critica: “Avevano già fatto una scelta di campo diversa, rispetto alla nostra…”. Verso la fine di settembre del ’43 il generale Dwight Eisenhower, comandante delle truppe sul campo nell’area europea, si era reso conto che in quel marasma generale gli ex prigionieri rischiavano moltissimo. Diede quindi l’ordine di fare appelli alla popolazione, in particolare italiana. Ne troviamo traccia anche nel diario di Antonio Mambelli, bibliotecario di Forlì, che racconta del ritrovamento, nel novembre ’43, di un volantino clandestino che fa appello agli italiani per il salvataggio dei prigionieri alleati. Noi abbiamo trovato parte della documentazione della Asc, relativa alla Linea Gotica, che si dava per scomparsa. è una raccolta burocratica di schede intestate al nome del salvatore, con la documentazione relativa all’attività di soccorso che si riteneva fosse stata ­bruciata. Ora è invece conservata, in originale, negli Archivi Storici di Guerra a Washington. Bandini. Le motivazioni dell’atteggiamento tenuto dalle popolazioni vanno ricercate innanzitutto nel loro universo culturale di riferimento. Florindo Milanesi dichiara candidamente, in un italiano molto stentato: “Li ho aiutati perché noi cattolici dobbiamo aiutare gli altri”. Poi scrive anche altre cose, ma fondamentalmente la motivazione era quella, cioè il soccorso a persone in difficoltà. Però è chiaro che la prima cosa che facevano era parlare con il parroco, soprattutto in questi casi, in cui era reale il rischio per tutta la popolazione. Bonali. Absalom, lo storico inglese cui ho fatto cenno prima, individua tre motivazioni principali nella mobilitazione delle popolazioni. Una motivazione, afferma, è economica, nel senso che molti di questi militari si trattengono presso le famiglie addirittura fino alla liberazione e diventano forza lavoro per il podere, perché i giovani del posto, i giovani contadini, sono stati richiamati alle armi. Perciò questi militari, soprattutto quelli di truppa, lavorano nei campi. La prima motivazione è quindi un po’ opportunistica. L’altra motivazione è religiosa o politica; Milanesi dà la motivazione religiosa. L’ultima motivazione è, diciamo, antropologica. Queste popolazioni, molte delle quali illetterate, sono lusingate dal contatto con uomini provenienti da una cultura “altra”, ritenuta più elevata, proveniente da mitiche nazioni come l’Inghilterra che nella memoria contadina sono il paradiso in terra, uomini che a loro volta sono aperti e gentili con loro. Questa è l’analisi di Absalom.

Il passaggio di questi prigionieri durò mesi: dai primi di settembre ‘43 fino al maggio del ’44…

Bonali. L’Oss, il servizio per le operazioni speciali americano, stimava che prima della liberazione di Roma, quindi nel maggio del ’44, circa 20.000 ex prigionieri alleati erano ancora soccorsi dalle popolazioni nell’Italia centrale, a sud della linea Gotica. Molti non si sposteranno mai, scrive l’Herald Tribune, perché stavano talmente bene lì che non correvano il rischio di passare il fronte; stavano sommersi e aspettavano. Venti, trenta mila, un numero notevole.
Bandini. è grave che, dal punto di vista storiografico, queste popolazioni siano citate nei libri solo genericamente, senza alcun approfondimento del loro ruolo. Inoltre, gli unici riconoscimenti li hanno ricevuti da chi è stato salvato, con una lettera, o con qualche migliaio di lire devolute dall’Asc in maniera molto micragnosa. Né da parte degli alleati né da parte italiana c’è stato un segno tangibile, un pezzo di carta che dicesse: “Tu hai contribuito a…” Bonali. C’è una rimozione voluta di questi fatti. Nel libro “La Resistenza in Romagna” gli autori Flamigni e Marzocchi se la cavano in poche righe parlando di tre generali inglesi, di cui storpiano i nomi, che sarebbero rimasti rifugiati in una capanna costruita dai partigiani a Seghettina, dal diciassette settembre a marzo. Questo è l’unico accenno ai tre “generalissimi”, in verità portati in salvo sin dai primi giorni di novembre. Il libro è del 1969 ed è considerato la Bibbia della Resistenza in Romagna, in quanto i due autori hanno avuto ruoli significativi nella lotta antifascista. Bandini. Da lì parte tutto il resto… Bonali. C’è una rimozione molto grave che priva le popolazioni di un riconoscimento doveroso. Moltissimi libri sulla Resistenza citano le popolazioni nel titolo, ma quando li vai a leggere non trovi che vaghi accenni o discorsi di circostanza.

Il generale di brigata Combe, lasciata la Romagna, testimoniò sul ruolo delle popolazioni romagnole. Rilasciò dichiarazioni alla Asc firmando alcune testimonianze di proprio pugno. Combe non era uno qualsiasi…

Bonali. Pur essendo arrivato a Seghettina con i tre generalissimi, Combe non li seguì nel loro tentativo di fuga. Insieme al generale Todhunter si aggregò al Gruppo Brigate Romagna, il gruppo partigiano in formazione al cui vertice c’era Riccardo Fedel, nome di battaglia Libero Riccardi, il comandante “Libero”. Erano i primi giorni del ’44…

(a cura di Rodolfo Galeotti)

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1 risposta a L’Uli e il corridoio umanitario

  1. Francesco scrive:

    Molte persone hanno pagato con la vita la libertà che noi abbiamo

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