Occupazione nazista e Resistenza

Aggiornamento: il rapporto Spini

Al link sopra indicato, un documento classificato “segreto” redatto per Intelligence Service britannico dall S.Ten. Giorgio Spini, dopo la guerra illustre storico, aggregato alla 2a Brigata corazzata dell’8a Armata britannica che ha liberato Forlì sfondando la Linea gotica.  E’ inviato da Forlì e datato 13 novembre 1944, quattro giorni dopo la liberazione, e illustra chiaramente la situazione del movimento di resistenza nel forlivese. In diversi punti parla diffusamente di Tonino come uno dei più influenti personaggi.

(Il testo che segue è di Mario Proli)

Nel tardo pomeriggio dell’8 settembre del 1943 anche nelle case romagnole giunse la notizia dell’armistizio firmato qualche giorno prima a Cassibile da Badoglio. A comunicare al mondo la svolta nello scacchiere bellico europeo fu il generale statunitense Eisenhower alle 18.30, ora italiana, dai microfoni di Radio Algeri. La novità ribalzò in Italia attraverso le emittenti straniere captate clandestinamente ancor prima dell’annuncio ufficiale che venne pronunciato dal capo del governo sabaudo, il maresciallo Pietro Badoglio, attraverso il canale radiofonico dell’EIAR. Erano le 19.42. Si apriva così una fase dalle prospettive imprevedibili; uno scenario nuovo che, a Forlì, suscitò speranze nella fine della guerra. Nell’apprendere la notizia, “la popolazione – annotava Mambelli – si rovesciava per le strade in ansia per interrogare o per avviarsi di corsa al centro, incredula di tanto evento. In Piazza Saffi dalla marea umana agitata saliva un tumulare di voci, si affermava esser vero della sospirata pace”. All’immediata sensazione di euforia, sottolineata dal suono a distesa delle campane di molte chiese, subentrò la consapevolezza di dover fare i conti con i nazisti e il pensiero andò ai nostri soldati in Francia, in Grecia, nei Balcani e ai lavoratori in Germania. La preoccupazione divenne paura in seguito alla voce dell’occupazione di Bologna da parte dei tedeschi. Avendo previsto la decisione e in base a una programmazione definita, l’esercito di Hitler attuò il piano di occupazione di gran parte della penisola, dalle regioni del nord fino alla Campania, disarmando, catturando e uccidendo migliaia di soldati in Italia e sui fronti di guerra. Il 9 settembre 1943 gli alleati lanciarono l’operazione di sbarco a Salerno ed entro la fine del mese, con Napoli liberata, lo scenario si assestò sulla prima struttura di difesa tedesca, la Linea Gustav. In quelle ore drammatiche l’esercito era stato lasciato senza ordini e senza direttive dal Re e da Badoglio che avevano pensato a mettersi in salvo lasciando da Roma per Brindisi, zona già in mano agli alleati. Fu il caos. Alla mattina del 9 settembre 1943 il Comando di difesa territoriale di Bologna, dal quale dipendeva il presidio militare di Forlì, era già in mano tedesca. Come si sparse la voce che i soldati avevano abbandonato le caserme molte persone diedero l’assalto agli edifici per asportare oggetti e viveri. Quell’esile arco temporale di terra di nessuno consentì alle forze clandestine antifasciste di costituire su scala locale il Comitato di Liberazione Nazionale e di recuperare armi dalle caserme non sorvegliate, per nasconderle in previsione degli eventi futuri. Azioni che si rivelarono fondamentali per la nascita dei gruppi partigiani.

Nel territorio si formarono e operarono diversi gruppi: il più consistente numericamente fu l’8^ Brigata Garibaldi “Romagna”, attiva nelle vallate del Bidente, del savio e del Rabbi; nella zona fra le vallate del Tramazzo e del Montone operò un gruppo denominato battaglione Corbari – Casadei; infine nelle città della pianura agirono le squadre gappiste della 29^ “Gastone Sozzi”. Di grande importanza strategica e militare fu l’azione di gruppi che collaborarono con le forze alleate e con i Comitati di Liberazione Nazionale. Fra questi gli uomini della Organizzazione Resistenza Italiana, fra i forlivesi Arturo Spazzoli e Giorgio Bazzocchi, che furono inquadrati come agenti dell’OSS statunitense, patrioti antifascisti come il forlivese Antonio Spazzoli e l’avvocato Torquato Nanni di Santa Sofia, alla cui azione si deve il salvataggio di numerosi prigionieri di guerra britannici fra i quali alti graduati e una costante attività di intelligence. Di grande importanza fu anche la lotta non armata messa in atto dalla popolazione civile dei territori, in aiuto ai partigiani, ai soldati alleati e resistente alla collaborazione con nazisti e fascisti.

Il Comitato di Liberazione Nazionale fu un organismo di primo piano dell’antifascismo italiano e anche romagnolo. Nacque a Roma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 per volontà del Partito comunista, Partito socialista, Democrazia cristiana, Partito repubblicano, Partito liberale, Partito d’azione. Obiettivo principale era di unire gli sforzi per giungere alla Liberazione del Paese, superando divisioni ideologiche e politiche. Sull’esempio venuto dalla capitale e sulla base dell’esperienza del “Comitato locale di azione antifascista” sorto nell’estate precedente, anche nelle province di Forlì e Ravenna si costituì immediatamente un punto di riferimento del CLN. Compiti principali del CLN erano quelli di organizzare la lotta, di coordinare le differenti realtà territoriali, di garantire il collegamento con gli Alleati e di guidare la Ricostruzione. Il Comitato rimase in attività per circa due anni fino all’estate del 1946. Il 31 luglio di quello stesso anno, infatti, anche il CLN di Forlì annunciò il proprio scioglimento.

Tornando all’occupazione tedesca di Forlì, va detto che il 10 settembre le truppe hitleriane presero il controllo dell’aeroporto e da lì procedettero all’occupazione della città. Solo alle Casermette (attuale sede del 66° Reggimento di Fanteria Aeromobile “Trieste”) ci fu un tentativo di opposizione che la tradizione orale cittadina attribuì a una iniziativa dell’avvocato Bruno Angeletti, punto di riferimento del mondo azionista. Al termine di uno scontro a fuoco, la barricata fu spazzata via. Nelle stesse ore, prima con gli appelli lanciati via radio dalla Germania da gerarchi fra i quali Farinacci e Pavolini, e poi con la liberazione dal Gran Sasso di Benito Mussolini, avvenuta il 12 settembre, le forze fasciste cominciarono a riorganizzarsi sotto controllo tedesco. Dopo esser stato trasportato al sicuro oltralpe e aver rinsaldato il rapporto con Hitler, il Duce venne posto alla guida della nuova versione del fascismo, in chiave antimonarchica e sotto egemonia tedesca, rappresentata dalla Repubblica Sociale Italiana (Rsi). Mussolini decise di stabilire la sua base operativa a casa sua, cioè al Castello di Rocca delle Caminate. Qui venne convocato il primo Consiglio dei ministri della Rsi con lui presente. Fra il 27 e il 28 settembre 1943 fu raggiunto da gerarchi e fedelissimi che incontrò sotto stretta sorveglianza da parte delle SS presenti in zona con un presidio. In quelle stesse ore venne giustiziato il primo “sovversivo”. Il 12 settembre erano comparsi a Forlì manifesti a firma del feldmaresciallo Kesselring che decretavano l’inizio dell’occupazione tedesca, il controllo militare del territorio, lo sfruttamento del potenziale produttivo e dettavano durissime pene di ogni azione considerata sovversiva. Misure che, abbinate alla voglia di esaltare l’inflessibilità nelle repressione dei nemici, costarono la vita a un bracciante di Tredozio, Antonio Fabbri. Era stato fermato perché trovato in possesso d’armi. Il 24 settembre venne condannato a morte e il mattino successivo fu prelevato e portato alle Casermette dove venne ucciso. L’obiettivo era quello di render chiaro a tutti il livello di durezza della morsa tedesca che in effetti si esplicò in azioni di sorveglianza, controllo e repressione abbinate al massimo sfruttamento del potenziale produttivo.

La ricostruzione della struttura fascista avvenne con l’assegnazione di incarichi e mansioni e il 9 febbraio 1944 fu organizzata una manifestazione. Dalla caserma “Caterina Sforza”, con l’evidente intento di dare maggiore visibilità alla cerimonia, partì una sfilata militare che si concluse in Piazzale della Vittoria dove milizie e formazioni in camicia nera pronunciarono un giuramento. In teatro vennero pronunciati gli interventi politici. Il giorno seguente un commando di gappisti uccise a San Varano il federale fascista provinciale Arturo Capanni. L’attacco al vertice del fascismo repubblicano locale fu messo a segno da partigiani in bicicletta che con questa risposta alla cerimonia militare della Rsi puntavano a dimostrarne la vulnerabilità. La reazione fascista tardò. Il primo impulso di scatenare una repressione simile a quella seguita all’uccisione del federale di Ferrara Igino Ghisellini avvenuta nel precedente mese di novembre, che fu vendicata con il sangue di 11 antifascisti, fu bloccato sul nascere, probabilmente per indicazione diretta degli ambienti più legati a Mussolini che volevano evitare di creare fibrillazioni in un territorio dove il Duce era rimasto per mesi, prima di trasferirsi nella zona del Lago di Garda, e dove probabilmente sarebbe potuto ritornare. Dopo un paio di giorni venne diramato un divieto di circolare in bicicletta a cui seguì un’ondata di arresti. Erano appena stati affissi i manifesti ai muri delle città che, all’interno delle industrie di Forlì, venne lanciata la parola d’ordine dello sciopero. Il 17 febbraio moltissimi operai si astennero dal lavoro mentre nel pomeriggio la protesta dilagò in tutti gli stabilimenti del capoluogo. Le rivendicazioni miravano ad ottenere la revoca del decreto che vietava la circolazione in bicicletta e l’assicurazione che le persone arrestate e deferite al Tribunale speciale non sarebbero state condannate a morte. Le agitazioni proseguirono per tre giorni e si conclusero dopo l’affissione dei manifesti recanti la revoca del divieto di circolazione in bicicletta e il 20 febbraio la situazione fu normalizzata. La figura di Arturo Capanni divenne uno dei simboli dell’ultimo fascismo e a lui venne intitolata la Brigata Nera che, dopo la Liberazione di Forlì, operò prima in Lombardia e in Veneto.

Gli scioperi di febbraio e il timore del ripetersi di altre manifestazioni, indussero le autorità naziste a predisporre misure militari, presidiando gli stabilimenti. E così alla Orsi Mangelli comparvero postazioni con mitragliatori. Intanto si era definito l’assetto politico del movimento antifascista riunito nel Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale e composto dai rappresentanti di cinque partiti: comunista (l’unico dotato di una organizzazione strutturata e solida dal punto di vista numerico), socialista, repubblicano, cristiano sociale e partito d’azione.

Il 19 febbraio uscì il “Bando Graziani”, decreto legislativo che stabiliva la pena di morte per i disertori e per i renitenti alla leva. Come conseguenza del provvedimento molti giovani in età di chiamata alle armi decisero di nascondersi o di raggiungere i gruppi partigiani sull’Appennino. Le altre conseguenze del bando divennero purtroppo evidenti nell’arco di poche settimane. Venerdì 24 marzo il Tribunale straordinario regionale, riunito nella caserma “Ettore Muti” di Forlì (così si chiamava a quel tempo la caserma che in precedenza aveva portato il nome “Ferdinando di Savoia”) condannò a morte cinque ragazzi per renitenza alla leva e diserzione. Una accusa pretestuosa, figlia dei giorni orribili durante i quali un’ondata di terrore pervase l’Italia occupata dalle truppe hitleriane. In quelle stesse ore, a Roma, si consumò l’eccidio delle Fosse Ardeatine mentre nella vicina Ravenna venivano uccisi, sempre per pretesa renitenza alla leva, tre ragazzi. A Forlì cinque giovani accusati di renitenza vennero fucilati verso mezzogiorno da un plotone d’esecuzione composto da giovani italiani, loro pari età, terrorizzati dal comando ricevuto. A vigilare su tutto un plotone di soldati tedeschi. A dar la morte ai giovani furono costretti soldati che, riluttanti a eseguire la strage, puntarono fuori bersaglio o alle gambe con il risultato di accrescere l’agonia dei condannati prima del colpo di grazia. I corpi furono caricati su un autocarro e portati al cimitero. Subito montò la rivolta dei forlivesi che manifestarono sdegno e rabbia. Nella giornata di domenica molte donne si recarono al cimitero per deporre fiori sulle tombe dei cinque ragazzi uccisi e per pregare. Il lunedì, allo scoccare della sirena delle ore 10, le maestranze delle grandi industrie di Forlì si fermarono. Un corteo imponente di circa duemila persone si mise in marcia e protestò al cospetto della caserma e sotto la Prefettura contro l’assassinio e per invocare la commutazione della pena inflitta ad altri dieci giovani arrestati sempre per renitenza. La condanna capitale fu commutata in detenzione ma le industrie rimasero bloccate anche il martedì quando si unirono bottegai e negozianti che rimasero chiusi. A metà pomeriggio, aerei tedeschi sorvolando la città lanciarono volantini per convincere i lavoratori a riprendere le attività. Il giorno dopo la situazione ritornò alla normalità ma nulla fu più come prima. Di fronte alla barbarie la città, con le donne in testa, assunse una posizione netta.

L’episodio incentivò l’afflusso di giovani verso la montagna e proprio questa zona fu il principale teatro della successiva ondata di repressione. Nella primavera del 1944 l’esercito nazista aveva avviato la costruzione della “Linea Gotica”, una lunghissima fascia di fortificazioni difensive predisposta lungo la linea del crinale fra Adriatico e Tirreno, da Cattolica alla Toscana. I generali di Hitler intendevano sfruttare il baluardo naturale degli Appennini, realizzando un sistema di trincee, postazioni d’artiglieria e collegamenti che avrebbe dovuto bloccare l’avanzata degli anglo-americani. Per provvedere alla costruzione di rifugi, strutture di logistica e camminamenti, i tedeschi dovevano fare i conti con la presenza nell’Appennino di formazioni partigiane che erano fonte di pericolo. Per questo procedettero a rastrellamenti per sgomberare il campo e far partire in tempi rapidi i lavori da parte di corpo che arruolava i civili chiamato “Organizzazione Todt”. Il rastrellamento più pesante contro l’8^ Brigata Garibaldi avvenne nel periodo compreso fra il 6 e il 25 aprile 1944, nell’area del monte Falterona, Campigna e foreste Casentinesi, mentre una seconda ondata contro le formazioni partigiane in fase di riorganizzazione partì nel periodo compreso fra il 16 e il 23 luglio 1944 quando furono battute le zone comprese tra le strade delle vallate del Savio e del Bidente. Successivamente migliaia di civili furono impegnati nella costruzione del sistema difensivo. Ripartiti in squadre da un centinaio di unità ciascuna, questi uomini provenivano per la maggior parte dai paesi di collina e dalla pianura, in certi casi arruolati coercitivamente o distaccati dalle aziende nelle quali prestavano servizio. Rilevante fu anche il flusso di uomini che accorsero volontariamente per sfuggire ai bandi di leva militare o alla deportazione in Germania. Oltre la linea del fronte, l’offensiva alleata vedeva all’opera una imponente dotazione aeronautica nella quale, agli ordini della Raf britannica e della Aviazione statunitense, erano impegnate flotte di tanti Paesi, dalla Saaf sudafricana a quella dell’esercito del governo polacco in esilio a Londra.

Secondo una stima furono 140 le azioni che colpirono Forlì fra bombardamenti, spezzonamenti e raid con mitragliatori. L’area ad essere maggiormente colpita nella fase iniziale fu quella dell’aeroporto, a seguire vennero prese di mira soprattutto le vie di comunicazione e il potenziale produttivo. Il primo bombardamento devastante sulla città avvenne il 19 maggio. Erano circa le 10 del mattino quando una pioggia di oltre trecento bombe, sganciate da una formazione di mezzi americani, martoriò la zona più densa di attività produttive, quella limitrofa alla stazione ferroviaria. Il bilancio risultò pesantissimo con oltre centoventi morti, centinaia di feriti e distruzioni a edifici e stabilimenti industriali. Il terrore della guerra irrompeva violentemente nelle case dei forlivesi, nelle strade, nelle piazze, nei luoghi di lavoro. Da quel giorno, i raid aerei alleati divennero sempre più frequenti e nel volgere di breve tempo gran parte della popolazione abbandonò le abitazioni per i paesi e le campagne, congiungendosi in molti casi ad amici e parenti. Continuava in questo modo un fenomeno drammatico e di grandi proporzioni: l’odissea degli sfollati.

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