(di Mario Proli)
Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche varcavano i confini della Polonia determinando l’inizio della Seconda guerra mondiale. L’Italia inizialmente non vi prese parte optando per la non belligeranza. La situazione rimase come sospesa e intrisa di inquietudine. Sulla scena forlivese in questi mesi intervenne un cambiamento quando all’inizio del 1940 la più alta carica della gerarchia provinciale fascista, il federale Pio Teodorani Fabbri, venne sostituito da Vincenzo Nardi. Dopo le campagne d’Africa e partenza per prender parte alla guerra civile spagnola, chi accorso a dar sostegno alle forze repubblicane, chi inquadrato nelle milizie di Francisco Franco, il regime fascista si preparava all’ingresso nel conflitto europeo a fianco di Adolf Hitler.
La dichiarazione di guerra a Gran Bretagna e Francia venne annunciata da Mussolini il 10 giugno 1940. Il Duce parlò dal balcone di Palazzo Venezia a Roma. I filmati Luce e i giornali raccontano della piazza nella capitale gremita di persone e dell’esaltazione che accompagnò il proclama al grido di “Guerra! Guerra!”. Tutt’altro tenore, stando alla cronaca di Antonio Mambelli riportata nel suo Diario, contrassegnò gli stessi momenti a Forlì: “L’adunata dei fascisti e della popolazione è avvenuta al suono delle campane, all’urlo delle sirene, in una teatralità medievale per cui era in tutti i volti manifesta una ansia comprensibile, negli animi il presentimento della decisione grave”.
Nelle settimane precedenti si erano svolte esercitazioni di protezione antiaerea al campo sportivo Tullo Morgagni con prove di spegnimento di liquidi incendiari e illustrazione sui possibili effetti dei bombardamenti con consigli circa i comportamenti da adottare.
La guerra, che la propaganda del regime annunciava come rapida e vittoriosa, ebbe la sua prima evocazione a distanza di poche ore. All’una di notte del 14 giugno entrarono in funzione le sirene dell’allarme aereo. “La popolazione si è riversata nelle strade con affanno incredibile e ha dato luogo a scene comiche e pietose” annotava sempre Mambelli che si confortava del fatto che nulla fosse “accaduto, per fortuna, nel parapiglia derivato dallo spavento; molti han trascorsa la notte in riva ai fiumi”.
Nei mesi successivi la sirena antiaerea divenne un suono familiare. I primi mesi furono contrassegnati da una sorta di attività informativa sui rifugi e sui pericoli di tenere in soffitte e cantine materiali potenzialmente infiammabili. Intanto i ragazzi in divisa continuavano a partire per i vari fronti di guerra, salutando famiglie, amici e luoghi cari che, molti di loro, non avrebbero più rivisto. L’eco della dichiarazione di guerra e la successiva ondata emotiva provocata dall’invasione italiana della Grecia alla fine d’ottobre del 1940 venivano alimentate dal passaparola malgrado la legge marziale e il monito del regime: “Taci, il nemico ti ascolta!”. In questo clima di fibrillazione permanente la città prese coscienza delle nuove condizioni di vita in tempo di guerra. La preoccupazione maggiore era dovuta al distacco dei giovani arruolati o già partiti per il fronte, tutto il resto risultava collegato a una parola cardine: mobilitazione. A cominciare dai luoghi di lavoro. Adeguandosi a quanto imposto da ordini nazionali, le maggiori industrie (con in testa gli stabilimenti Orsi Mangelli, la Bartoletti, la Bonavita, la Becchi, l’Eridania) e le attività di importanza primaria (mulini, forni, aziende di trasporto, mercati, macelli) avevano ricevuto un inquadramento di tipo militare, con tanto di presidi armati ai punti d’ingresso e ai depositi, in modo da sorvegliare e organizzare le filiere produttive in funzione delle necessità dell’esercito e della nazione. Poi cominciarono ad essere abbattute le cancellate di ferro da inviare alle industrie siderurgiche. A questo fine pare sia stato destinato pure il grandioso fregio che sovrastava il palazzo municipale, smontato perché pericolante e mai più rintracciato.
La guerra contribuiva a modificare le abitudini, peraltro sollecitate al sacrificio da anni di autarchia e sanzioni internazionali, spingendo a trovare soluzioni integrative alle imposizioni del razionamento alimentare, tanto da portare molti abitanti del centro urbano a cercare frustoli di terreno da adibire a “orto di guerra”.
La mobilitazione dispose le norme dell’oscuramento notturno e l’approntamento di rifugi che venivano realizzati nelle cantine degli edifici più robusti e nei luoghi pubblici. Con grande riservatezza, invece, proseguiva l’opera di messa in sicurezza, presso sedi decentrate ritenute più difficilmente soggette ad attacco aereo, di molte opere d’arte del patrimonio civico.
Per mantenere il morale alto della popolazione, le autorità fasciste installarono in piazza Saffi, davanti al Palazzo delle Poste, un pannello geografico delle zone in cui le truppe italiane stavano svolgendo le operazioni belliche. La mappa, affiancata da pannelli fotografici, era stata confezionata dal Ministero della cultura popolare ed entrò in funzione nella mattinata dell’11 novembre 1940. Il quadro geografico mostrava il Regno d’Italia, le colonie e le aree calde del conflitto in Africa e nei Balcani, con la scritta a caratteri cubitali “Vincere !” alla base. Personale della biblioteca provvedeva a variare le posizioni di aerei e navi in miniatura, in conformità con le indicazioni del bollettino del Comando supremo. Stemperato l’entusiasmo iniziale per quei simboli militari che si muovevano guadagnando terreno e miglia marine, e alla luce di esiti inaspettati nei tempi e negli obiettivi delle imprese belliche italiane, il pannello cominciò ad apparire statico e imbarazzante. Il silenzio dei crocchi di persone che vi sostavano davanti divenne assordante e il 15 febbraio 1941 partì l’ordine di smontare quella mappa che ormai appariva come un oggetto di contro-propaganda.
La decisione nazista di attaccare l’Unione Sovietica e l’avvio dell’Operazione Barbarossa nel mese giugno modificò il quadro che ricevette una ulteriore variazione nel mese di dicembre, con l’attacco giapponese a Pearl Harbor. Anche Urss e Stati Uniti d’America diventarono protagonisti del conflitto nel fronte alleato, schierandosi contro le truppe dell’Asse Roma – Berlino – Tokio.
Tradotto in termini di sforzo bellico e vite umane, la nuova dimensione allargata del conflitto significò la partenza o la destinazione di molti forlivesi nel Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) e nell’8ª Armata Italiana in Russia (ARMIR) per combattere sul fronte orientale tra il luglio del 1941 e il febbraio del 1943 contro l’Armata Rossa. L’impatto con l’esercito americano sarebbe arrivato in un secondo momento, nelle terre d’Africa, sui cieli italiani, nei campi di prigionia a stelle e strisce, in Texas come alle Hawaii.
Per chi rimase in città, la situazione economica si aggravò in seguito al blocco salariale e all’entrata in vigore dei razionamenti alimentari. Le crescenti difficoltà nel reperire materie prime e beni di consumo, le notizie di feriti e il ritorno delle salme dei soldati non resero la vita della popolazione civile meno pesante. L’esasperazione sfociò in azioni di protesta. Su questa si innestò la ripesa del movimento antifascista clandestino. A partire dal 1940, dopo un decennio di calma seguita alla massiccia ondata di arresti di antifascisti avvenuta nel periodo 1930-‘32, riprese pure l’attività di propaganda contro il regime con scritte sui muri e volantinaggi alla macchia.
Nel volgere di breve tempo, la situazione politica e militare subì radicali rivolgimenti con la sconfitta delle truppe italiane in Africa, lo sbarco degli alleati in Sicilia e la caduta del fascismo avvenuta il 25 luglio 1943. L’annuncio della destituzione del Duce ad opera del Gran Consiglio del fascismo, con l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, suscitò entusiasmo a Forlì dove, come nella maggior parte delle città italiane, scoppiarono manifestazioni spontanee. La cronaca raccontava che “colonne di dimostranti, in maggioranza operai, si sono rovesciate per le vie principali agitando cartelli inneggianti all’Italia; ritratti del re, di Garibaldi erano sollevati da gruppi folti, uno dei quali recava una grande fotografia in cornice di Giacomo Matteotti”. L’estate del 1943, con il governo nazionale presieduto da Pietro Badoglio, vide la liberazione dalle carceri di antifascisti e la riorganizzazione delle formazioni politiche. A variare ulteriormente lo scenario giunse la firma dell’armistizio fra il governo regno d’Italia ed esercito alleato e la conseguente occupazione nazista di gran parte della penisola.