Il primo antifascismo

I volti del dissenso
(di Mario Proli)

Oltre alla rissosità interna del movimento fascista forlivese e al livello di adesione alle organizzazioni “in camicia nera” più basso che altrove , il territorio esprimeva altri aspetti in grado di preoccupare il regime. Si trattava in primo luogo di filoni antifascisti di varia matrice politica che nonostante i colpi durissimi ricevuti dalla repressione poliziesca di fine anni 20 e primi anni 30 con ammonizioni, arresti, vigilanze speciali e le condanne al carcere o al confino, tentavano di sopravvivere.

La difficoltà incontrata nel prendere il controllo in gran parte della provincia Romagna – più precisamente nelle aree urbane, nella pianura e nella prima collina forlivese, cesenate e ravennate dove forte era la presenza del partito repubblicano – è un dato sul quale concordano gli storici che hanno preso in esame queste realtà. La situazione trae origine da alcuni fattori. In primo luogo l’esistenza di un antifascismo di matrice comunista in grado di costruire fin dai primi anni 20 una rete di militanza robusta che sopravvisse nella clandestinità, mantenendo relazioni nonostante le ondate di repressione. Un personaggio simbolo di questo mondo fu Franco Agosto, futuro sindaco della Liberazione, condannato al confino sull’isola di Ponza insieme a Sandro Pertini.

Se questo dato colloca la provincia forlivese in uno scenario simile a quello di altre realtà dell’Italia centrale e settentrionale, la presenza della forte componente politica di tradizione mazziniana costituisce un elemento peculiare. Fu la scelta antifascista di buona parte di questo mondo, avvenuta per alcuni dopo una prima infatuazione per Mussolini, che ampliò la fascia della popolazione convinta nel mantenere le distanze dal regime. Come nei casi già incontrati del Sindaco Gaudenzi cacciato dai fascisti e poi sorvegliato speciale perché, in qualità di Segretario nazionale del Pri, guidò il partito dell’edera verso la scelta antifascista; e del medico e letterato Aldo Spallicci che abbandonò ben presto la sua iniziale vicinanza al fascismo, diventando una delle voci critiche del regime mussoliniano tanto da pagare con il confino e il carcere.

I fascisti stessi ne erano consapevoli come rivela un commento del 1927: “Un esame obiettivo sull’azione politica del fascismo nella Provincia porta a questa affermazione di una esattezza indiscutibile: che cioè le difficoltà di penetrazione, di affermazione e di consolidamento del partito furono, agli inizi, molteplici, complesse e caratteristiche. Il fascismo ha potuto far breccia in pieno e rapidamente laddove aveva di fronte a sé resistenze rosse a fondo bolscevico… Nella provincia di Forlì il partito trovò tale situazione soltanto nella parte alta e nella zona riminese: non altrettanto nel cesenate e nel forlivese dove, per contro, dominava il partito repubblicano. – … – molti (repubblicani) passarono al Fascismo: ma i pastori, i capoccia resistettero e quasi ovunque le masse repubblicane restarono avulse ed irrigidite di fronte alla nuova realtà che si andava impadronendo irresistibilmente dell’anima nazionale” .

Dopo l’instaurazione della dittatura e l’assegnazione al Pnf di un ruolo centrale nella vita quotidiana, dal lavoro all’assistenza, la percentuale di adesione alle organizzazioni fasciste della provincia di Forlì risultava a livelli inferiori rispetto ad altre zone d’Italia. Altri elementi di rilievo nel definire le forme di dissenso sono rappresentati dall’esistenza di proteste (nonostante pubblicamente non fossero annunciate perché censurate) e dalla riottosità all’interno dello stesso movimento fascista. Il clima di tensione all’interno del Pnf vissuto nella seconda metà degli anni ‘20 riscontrò nel forlivese livelli di tensione elevati e, soprattutto, mai domati completamente, forse per la presenza in zona di un nucleo consistente di “arpinatiani”, seguaci del romagnolo Leandro Arpinati (era originario di Civitella di Romagna, paese ad una ventina di chilometri da Forlì) che da uomo di primo piano delle gerarchie italiane, entrò in forte contrasto tanto da essere inviato, nel 1934, al confino a Lipari. Fra la condivisione dei valori dell’antifascismo mazziniano e repubblicano, e l’amicizia personale con Arpinati che lo coinvolse negli effetti della “caduta”, si colloca la figura di Antonio Spazzoli, anch’egli condannato a un periodo di confino nel 1934 e che scontò nella campagna limitrofa alla borgata di Pomarico, sperduta nelle colline della Lucania. Da ricordare anche che fino alla fine dei suoi giorni, anche il sindaco cacciato dai fascisti Giuseppe Gaudenzi fu sottoposto a sorveglianza e misure di controllo. Dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti guido il movimento repubblicano nazionale nella svolta antifascista fino al 1925. In seguito all’avvento della dittatura si ritirò a vita privata nella capitale. Morì nella sua casa di Pievequinta il 10 luglio 1936.

Se dopo le repressioni dei primi anni 30, l’antifascismo locale fu completamente imbrigliato e sopravvisse nella più stretta clandestinità, una costante agitazione continuò a dividere il movimento fascista. Fra ripicche, vendette e contrasti la situazione non giunse mai ad una situazione di esaurimento delle tensioni, come dimostra un avvenimento. Il 18 aprile 1937 una squadra di fascisti ebbe il mandato dal vertice del Pnf cittadino di dare una lezione a dissidenti interni ed esterni. Fra i quaranta nomi presenti in una lista, otto fra quelli che furono percossi o minacciati erano iscritti al partito, mentre altri erano individuati perché presunti antifascisti o per regolamento di conti personali. La maggior parte delle percosse avvenne nella piazza centrale, piazza Saffi, di fronte alla Casa del fascio che aveva sede a Palazzo Albertini. Fra gli autori della spedizione punitiva figurava anche uno squadrista della prima ora che, dopo un decennio di fronda interna, aveva raggiunto un accordo con il Federale ed aveva suggellato la ritrovata amicizia prestandosi a dirigere l’operazione. Scriveva il Questore al Prefetto il 23 aprile 1937: “In complesso l’azione punitiva, iniziata dagli squadristi e stroncata dall’intervento energico dell’E.V., per gli equivoci a cui si prestava, aveva determinato uno stato di allarme in buona parte della cittadinanza e molti, pertanto, in preda a fortissima preoccupazione – bastonandosi anche elementi fascisti – erano in ansia per sé o parenti; alcuni si allontanavano da Forlì; alcuni chiedevano protezione alle autorità” .

Nella provincia di Forlì, la fiammella della sovversione rimase sempre accesa: contro il regime da parte delle forze antifasciste, ma anche all’interno delle stesse organizzazioni in camicia nera.

Quella che la propaganda aveva ribattezzato “Terra del Duce” era in realtà una zona difficile, spigolosa, ricca di problematicità, dove i fascisti erano coinvolti in lotte di potere (non solo politiche ma anche fisiche) e dove la Resistenza di impronta mazziniana e socialista, comunista e anarchica, mantenne sempre punti di riferimento, contatti e relazioni.

L’attività antifascista riprese vigore dopo l’entrata dell’Italia nel secondo conflitto mondiale. Dapprincipio cominciò a farsi largo fra i lavori e la popolazione un sentimento di insofferenza per l’esiguità delle retribuzioni mentre sul versante politico trovò rinnovato vigore la propaganda clandestina.

Per quanto riguarda il primo elemento bisogna tener presente che la diminuzione dei salari reali era iniziata in Italia a partire dalla crisi di fine anni ‘20 e non aveva trovato compensazione con la ripresa economica della seconda metà del decennio successivo, facendo registrare solo limitati aumenti nominali. Appesantita dalle sanzioni internazionali e dalla politica autarchica, la situazione si aggravò dopo i primi anni di conflitto in seguito al blocco salariale imposto dalle leggi di guerra e all’entrata in vigore dei razionamenti alimentari. Venne registrata così una ulteriore diminuzione delle retribuzioni reali che scendevano ad un livello medio di poco superiore al minimo necessario per la sussistenza. Fu sull’onda del malcontento generale, ulteriormente esasperato dall’entrata in vigore del razionamento del pane il 1° ottobre 1941, che sul finire dello stesso mese Forlì assistè alla prima agitazione operaia.

Teatro dell’avvenimento fu il “Calzaturificio Trento” dei fratelli Battistini dove alcune operaie manifestarono palesemente il loro dissenso incitando le colleghe allo sciopero. Non ci volle molto tempo alle forze dell’ordine per sedare la rivolta che venne soffocata con fermi e diffide.

In quello stesso periodo, si andò rafforzando anche l’attività antifascista che venne portata avanti con volantinaggi alla macchia e scritte sui muri. Per far fronte a questa propaganda sovversiva, l’attività di controllo della polizia fascista divenne sempre più pressante fino a sfociare nell’ondata di arresti del novembre del 1941. Tutto iniziò con il fermo di un ragazzo cesenate, il quindicenne Carlo Pollarini, accusato di essere a capo di una associazione clandestina, di ispirazione comunista, denominata “Giovane internazionale”. Questo gruppo era formato da studenti e da giovani operai dell’industria conserviera Arrigoni di Cesena e della Aeronautica Caproni di Predappio che avevano trovato la propria guida politica in Walter Zavatti, un “vecchio” antifascista già condannato al carcere nel 1933.

La scoperta di una struttura clandestina così ramificata destò particolare allarme nelle autorità fasciste che decisero di allargare per quanto possibile il campo d’indagine. All’arresto dei quattro operai cesenati in forza alla Caproni, Domenico Turci, Giuseppe Decio Oberdan Cecchini, Agostino Vendemini e Sergio Sacchetti, si associarono altri provvedimenti disciplinari emessi nei confronti di altri operai dello stabilimento “che, pur non essendo costituiti in associazione clandestina, mostra[va]no idee comuniste e frequentavano la compagnia del Turci e del Vendemini” (12).

In relazione alla scoperta della “Giovane internazionale” di Cesena si aprirono anche ulteriori filoni d’indagine che condussero all’arresto di altri militanti comunisti nel cesenate e alla scoperta, nel Forlivese, di un gruppo antifascista giovanile legato all’Unione dei Lavoratori Italiani (associazione che raggruppava nelle sue file repubblicani, giellisti e liberalsocialisti) che avevano un punto di riferimento nel mazziniano ravennate Arnaldo Guerrini, anch’egli con la condanna al confino politico nel percorso biografico, e in relazione con la rete mazziniana romagnola della quale erano parte Aldo Spallicci, Cino Macrelli, Giovanni Querzoli, Icilio Missiroli, Tonino Spazzoli e i faentini Virgilio e Bruno Neri.

Al termine dell’azione repressiva, la polizia fascista tracciò un bilancio.

La scoperta a Cesena ed a Forlì di gruppi antifascisti, più o meno organizzati, tendenti a fare propaganda specialmente fra elementi giovani e giovanissimi dimostra indubbiamente che i più maturi elementi sovversivi non hanno completamente disarmato e che, cogliendo occasione dai sacrifici che la guerra impone al popolo, ritengono il momento adatto per rialzare il capo.”

Uno dei principali elementi che la repressione delle organizzazioni clandestine portò alla luce fu l’esistenza di un rapporto di continuità fra l’antifascismo giovanile e quello “storico” che legava i giovani forlivesi a personaggi forgiati da molti anni di militanza clandestina fra i quali i forlivesi Bruno Angeletti, Francesco Lami ed Edgardo Valpiani.

Dopo l’ondata di arresti dell’autunno ‘41, l’attività antifascista ritornò ad operare nell’ombra per paura di incorrere in nuovi fermi.

La macchina repressiva fascista entrò presto in azione per evitare che a Forlì si verificassero gli scioperi operai sull’onda di quanto stava avvenendo in numerose città industriali del nord nel marzo del 1943. Seguendo questo esempio, anche all’interno degli stabilimenti Mangelli si era attivato un movimento di agitazione operaia che era ormai prossimo a lanciare la parola d’ordine di abbandonare il lavoro. Questo tentativo di insurrezione, però, venne stroncato sul nascere dall’intervento della polizia, particolarmente attenta a evitare che dalla “città del duce” potessero levarsi esempi dannosi per l’immagine del regime. A fare le spese dell’azione repressiva erano due operai, Guido Bonali e Ettore Monti, che vennero immediatamente arrestati. Guido Bonali era nato a Casalbutano, in Provincia di Cremona, nel 1904 e si era trasferito definitivamente nella città romagnola dopo il matrimonio con la forlivese Vera Gori che aveva sposato nel 1929. In quello stesso anno era stato assunto alle dipendenze della Saom dove nel ‘33 aveva assunto l’incarico di Capo reparto della “Filatura”. Di idee socialiste, Bonali era in contatto con l’antifascismo forlivese e romagnolo ancora prima dello scoppio della guerra anche grazie alla parentela con Tina Gori, sua cognata, che era legata all’antifascismo “laico” del repubblicano Tonino Spazzoli e alla cerchia dell’Uli. Dopo qualche giorno di carcere, Bonali veniva rilasciato e sottoposto a vigilanza. Malgrado questo controllo, il Capo reparto della “Filatura” manteneva la sua posizione in prima linea nella lotta di Resistenza ricoprendo cariche di rilievo nel Comitato di Liberazione Nazionale e, dopo la fine della guerra, nel Partito Socialista.

Ercole Monti era un rappresentante di vecchia data dell’antifascismo romagnolo. Nato a Forlì nel 1907, Monti era entrato alla Mangelli dove lavorava come operaio. Erano noti i suoi sentimenti di ispirazione comunista che gli erano costati una diffida nel 1935. Tornato libero, Monti continuò ad operare nell’ambito delle forze antifasciste all’interno della fabbrica.

Questa attività sovversiva diede vigore, dopo oltre un ventennio di silenzio forzato, alla voce dei lavoratori e con essa alla loro forza sindacale e politica. Nel volgere di pochi mesi, però, la situazione avrebbe registrato un profondo cambiamento con la destituzione di Mussolini ad opera del Gran Consiglio avvenuta il 25 luglio 1943.

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