(di Mario Proli)
Nell’estate del 1944 si consumò una stagione del terrore nei confronti dei civili che rispondeva a una precisa strategia nazista. Il terrore sulla popolazione esplose quando, dopo la liberazione di Roma il 4 giugno 1944, l’esercito tedesco attestò la propria difesa principale lungo la Linea Gotica. Due giorni dopo l’arrivo degli Alleati nella capitale, poi, ci fu lo sbarco in Normandia che assegnò a quei territori priorità nello scacchiere europeo, con conseguente spostamento di divisioni tedesche dall’Italia. Con meno truppe e più odio, nazisti e fascisti aumentarono rastrellamenti, requisizioni, uccisioni, rappresaglie, eccidi. Mentre a Tavolicci, sull’Appennino, veniva compiuto il massacro di un intero villaggio, nel mese di luglio a Forlì si furono due rappresaglie, una nei pressi dell’aeroporto, l’altra a Pievequinta, con dieci uccisioni per ognuna. Ma il trionfo dell’orrore si verificò il 18 agosto in piazza Saffi con l’esposizione dei cadaveri di quattro partigiani che militavano nelle fila della Resistenza in formazioni differenti. Tre di loro, tutti giovanissimi con età attorno ai vent’anni, appartenevano alla formazione guidata da Silvio Corbari che, agendo fra le vallate del Tramazzo e del Montone, operava in stretto contatto con gli angloamericani. Insieme a colui che dava nome al gruppo, c’erano il forlivese Adriano Casadei (la cui preparazione alla Scuola ufficiali e la prestanza fisica di atleta di livello nazionale, accreditavano come leader militare del gruppo) e una ragazza originaria di Portico di Romagna, Iris Versari. Altri protagonisti della vicenda furono i fratelli Spazzoli: Tonino, classe 1899, e il più giovane Arturo, di 21 anni. La loro attività partigiana si muoveva nella rete dell’intelligence alleata con risultati eccezionali. Merita una riflessione la figura di Tonino Spazzoli, ardito e pluridecorato nella Grande guerra, mazziniano, condannato dal fascismo al confino, sempre pronto all’azione. Fu un fulcro della trafila patriottica clandestina che, attiva già durante il regime, all’indomani dell’occupazione tedesca divenne riferimento per gli Alleati, guadagnando piena fiducia salvando ufficiali britannici e americani, intessendo un efficace sistema di relazioni e portando a buon fine “missioni Radio”. Nella rete inserì il fratello Arturo che fu inquadrato nella “Organizzazione Resistenza Italiana” e divenne agente dell’OSS americano. Il destino dei patrioti si incrociò in quel fatidico agosto 1944. La fama assunta da Corbari, soprattutto dopo l’uccisione di un alto ufficiale fascista in località Baccanello, aveva posto la sua cattura fra le priorità dei tedeschi. Inoltre in quei giorni, Arturo Spazzoli aveva raggiunto Corbari e Casadei per progettare la liberazione di Tonino dal carcere di Forlì dove era stato rinchiuso dopo la cattura. I tre si incontrarono a Cornio, casa colonica nelle colline fra Modigliana e Tredozio, dove si trovava anche Iris Versari impossibilitata a muoversi a causa di una ferita. Della loro presenza in quel luogo, nazisti e camicie nere erano informate da una spia. L’attacco partì da Castrocaro dove era giunto il “Battaglione M. IX settembre”, specializzato in attività antipartigiana. All’alba del 18 agosto una formazione circondò la casa rurale. A dare il via all’azione fu un milite altoatesino che entrò nella stanza dove si trovava Iris Versari la quale uccise l’assalitore e si suicidò. Arturo Spazzoli venne falciato da una raffica di mitra mentre Corbari cadde in una scarpata e non era in grado di alzarsi. Casadei era riuscito a mettersi in salvo ma quando vide l’amico a terra tornò indietro e lo aiutò, cercando di riprendere la fuga. Ma non riuscì e furono catturati. La spedizione fece ritorno a Castrocaro (nel tragitto venne freddato un contadino del posto) dove Corbari e Casadei, ancora vivi, furono impiccati nella loggia di fronte al Grand Hotel, comando delle SS. A Casadei si ruppe la corda e lo strangolamento venne replicato con una seconda fune. I cadaveri, insieme a quelli di Iris Versari e Arturo Spazzoli, furono trasportati a Forlì e appesi per ore ai lampioni di Piazza Saffi di fronte a palazzo Albertini che, all’epoca, era sede del partito fascista. Un macabro trofeo che doveva seminare terrore. Qui i tedeschi trascinarono Tonino Spazzoli, che non riusciva più a camminare per le torture subite, e lo costrinsero a guardare il corpo inerme del fratello prima di uccidere anche lui, l’indomani, nei pressi di Coccolia, lungo la via Ravegnana. Legati a un destino comune sono invece gli eccidi di Branzolino e San Tomè. Il 28 agosto nella campagna di Branzolino e come sarebbe avvenuto pochi giorni dopo, il 9 settembre, sempre in via Minarda ma nei pressi di San Tomé, venne riproposta la macabra liturgia nazista ma anziché paura, gli eccidi suscitarono sgomento, rabbia e voglia di reazione.
A Branzolino vennero uccisi quattro partigiani, uomini di una squadra gap che operava negli stabilimenti industriali, in particolare all’interno delle fabbriche Orsi Mangelli. Erano stati arrestati ai primi di agosto dalla milizia fascista, torturati e trattenuti. Come reazione a un sabotaggio contro i tedeschi, che aveva portato a un ferimento, i quattro furono impiccati ai bordi della strada nel luogo dove era il fatto. Per l’impiccagione vennero usati fusti e una trave. Le persone del posto furono rastrellate, portate al cospetto delle forche e obbligate ad assistere all’esecuzione. I cadaveri rimasero appesi fino al giorno seguente, 29 agosto, data che si legge nel cippo commemorativo. Poi furono sepolti in una fossa comune, due di loro senza cassa. Alcuni giorni dopo vennero condotti e impiccati nella vicina San Tomé sei persone, quattro originarie dell’alta vallata del Bidente mentre due collegate alla comunità ebraica di Ferrara. Le vittime furono prelevate dal carcere e al momento dell’esecuzione vennero rastrellati i cittadini e costretti ad assistere al macabro evento. Gli eccidi di Branzolino e San Tomé aggiungono al tema della memoria un elemento aggiuntivo determinato dall’esser diventati oggetto di un processo conclusosi, nel settembre del 2006, con sentenza del Tribunale Militare di La Spezia. Tutto partì con il rinvenimento della documentazione in archivi italiani e di relazioni stilate all’indomani della Liberazione dall’Esercito Britannico. Ciò ha permesso di ricostruire con precisione la dinamica dei fatti, individuando i responsabili. La giustizia militare ha così fatto il suo corso giungendo a una condanna di colpevolezza che per motivi di età il condannato non si è tradotta in carcerazione. Resta fondamentale il fatto che i crimini contro l’umanità non cadono mai in prescrizione, non possono essere dimenticati o relegati al ruolo di terribili aneddoti del passato.
Altra terribile pagina tremenda della storia cittadina è legata agli eccidi avvenuti nei pressi dell’aeroporto. Nel settembre 1944 un distaccamento nazista SS del Sicherheitsdienst SD uccise 42 persone, fra le quali uomini e donne di religione e cultura ebraica, antifascisti, perseguitati politici, civili e militari, per poi seppellirli in buche prodotte da bombe di aereo. Non fu una rappresaglia, né un’azione militare: fu un’eliminazione vera e propria che rientrava nel progetto di soluzione finale che Hitler aveva teorizzato e stava concretizzando. Le linee ferroviarie inagibili, la mancanza di carburante, le strade danneggiate e ponti distrutti rendevano impraticabile il trasferimento nei campi di prigionia e di sterminio dei prigionieri, per cui venne attuato su territorio italiano un pezzo della “soluzione finale” voluta da Hitler per ebrei e oppositori politici. L’eccidio si consumò in diverse giornate: il 5, il 17 e il 25 settembre 1944. A memoria di questi terribili eventi ci sono in città il cippo in via Seganti e le più recenti epigrafi al Cimitero Monumentale di Forlì nelle quali sono riportati i nominativi di tutte le vittime, così come emerso dalle ultime ricerche.
La situazione era in continua evoluzione. Lo scenario delineato dalla strategia militare alleata nella penisola, con le truppe ormai assestate alle pendici meridionali del contrafforte appenninico che dalla Toscana taglia lo stivale fino al confine fra Romagna e Marche, risultava diviso in due settori, col fianco del Tirreno affidato alla 5a Armata Americana e quello adriatico assegnato agli Inglesi.
Il 25 agosto 1944 scattò l’offensiva britannica contro la linea Gotica e mentre le truppe di terra cercavano di sfondare le trincee all’altezza della riviera, l’aviazione doveva tagliare le comunicazioni e danneggiare il nemico. Era un venerdì e, allora come oggi, giorno di mercato. Allarmi erano scattati fin dalle prime ore del mattino. Sirene spiegate alle 6.27 e ancora alle 8.42 per mettere in guardia da un pericolo che spesso restava potenziale. Quel giorno arrivò scatenando l’inferno nel centro storico della città. Era passata circa mezz’ora quando un terzo allarme rinnovò la paure spingendo le persone verso i luoghi considerati più sicuri: i rifugi antiaereo e, ancora più apprezzati, i campi perché le esperienze precedenti avevano dimostrato che nei rifugi si rischiava di restare intrappolati fra le macerie, oppure di soffocare per polvere e fumo. A differenza degli allarmi precedenti in questo caso all’urlo delle sirene si sovrappose un rombo sordo che annunciava un pericolo reale. Numerosi furono coloro che si recarono al campanile di San Mercuriale, nel quale era attrezzato un rifugio di dimensioni limitate. In molti non entrarono e rimasero ai piedi del campanile perché era convinzione diffusa che i campanili fossero più sicuri di altri luoghi. Una squadra di aerei alleati volava verso Forlì. Dalle carte militari dell’aviazione sudafricana collegata alla Raf inglese si conosce che l’obiettivo militare era rappresentato dai raccordi della ferrovia ma la prima formazione di aeroplani sbagliò il lancio e centrò la piazza, le attuali via delle Torri, piazza Cavour e altre strade e caseggiati del centro facendo un macello in termini di sacrifici umani e di distruzioni. Alle 9.16, così è riportato nelle cronache, iniziarono le esplosioni. La pioggia di bombe colse tantissime persone ancora per strada, sotto i portici, sul sagrato della chiesa, all’ingresso dei palazzi e dei rifugi. Numeri terribili: 75 civili e 9 militari morti (altri se ne sarebbero aggiunti nei giorni seguenti), centinaia di feriti. La cronaca del Diario di Antonio Mambelli racconta quei momenti: “Un urlo di terrore si è alzato da ogni punto della piazza ove tanti sbalzati dallo spostamento dell’aria erano caduti sotto i portici… La gente, come pazza, si è data poi a fuggire in ogni direzione, occhi sbarrati, capelli irti mentre pochi coraggiosi si precipitavano a San Mercuriale a prestare soccorso”. Fra questi monsignor Giuseppe Prati. “Don Pippo – ricordava il suo collaboratore don Giuseppe Mangelli – si trovava in sacrestia. Raramente veniva in campanile e solo per recitare il rosario o per fare un po’ di coraggio con le sue battute pronte”. Dopo i boati non corse a ripararsi ma si precipitò ad aiutare gli altri. Così lo vide il cappellano: “Stava sorreggendo e stringendo al cuore una ragazza, alla quale erano state tagliate completamente le gambe e che gli era forse morta fra le braccia o mente sulla fronte faceva un ultimo segno di croce”. Aiutò, insieme ad altri coraggiosi, chi poteva e come poteva. Nei giorni seguenti continuò a raccogliere resti umani, ne riempì cassette e le portò al cimitero.
Una bomba centrò in pieno la schiera di edifici di via delle Torri sventrando i palazzi e lasciando un cumulo di macerie. Fra quelle rovine, l’unica presenza di vita era rappresentata dal glicine della famiglia Manoni. Nella profonda desolazione di quei giorni, la pianta divenne un simbolo della tenacia con la quale i forlivesi si adoperarono, dopo la Liberazione, per far rinascere la città.
A distanza di alcune ore, lo scoppio ritardato di un ordigno provocò gravi danni alla statua di Aurelio Saffi che, pericolante, venne smontata. Il suo ritorno avverrà a distanza di molti anni.
Dopo lo sfondamento della “Linea Gotica”, all’inizio di settembre del 1944, il fronte di guerra italiano vedeva la Romagna al centro della linea di fuoco. L’8^ Armata britannica, che in questo periodo vide l’avvicendamento al comando fra Oliver Leese e Richard McCreery, era una imponente formazione militare che inquadrava oltre alle unità inglesi, gallesi, scozzesi e nordirlandesi anche forze provenienti dai Dominions, dal Commonwealth e da altri Paesi: indiani, nepalesi, neozelandesi, canadesi, australiani, sudafricani ma anche un nucleo di soldati greci, una brigata ebraica con militari arruolati nei territori della Palestina e il II Corpo d’armata polacco. Da sottolineare che agli ordini dei generali Inglesi si mossero pure alcuni “Gruppi di combattimento” dell’Esercito Italiano fra i quali un ruolo importante ebbero il “Trieste” comandato dal generale Arturo Scattini e il “Cremona” guidato dal generale Clemente Primieri. A contrastare l’offensiva si trovavano le truppe tedesche della X Armee (76° Corpo d’armata corazzato, 73° Corpo d’armata e 51 Corpo d’armata di Montagna) che si avvalevano della collaborazione delle formazioni fasciste della Repubblica sociale italiana.
La battaglia di Forlì fu molto dura. Iniziò all’indomani della liberazione di Cesena, avvenuta il 20 ottobre 1944, quando le truppe naziste in fuga dalla città bagnata dal Savio assestarono la difesa principale sulla sponda del fiume Ronco.
Da un punto di vista della strategia militare, i tedeschi attuarono quella che è stata definita “ritirata dei fiumi” basata sulla scelta di assestare le linee difensive a ridosso dei corsi dei fiumi, approfittando delle trincee naturali rappresentate dai corsi d’acqua che in quell’autunno denso di piogge risultavano particolarmente carichi. A protezione dei ripiegamenti rimanevano postazioni di artiglieria e cecchini, lasciando alla possibilità di rare incursioni aeree il compito creare scompiglio nelle retrovie.
L’attacco a Forlì marciò lungo due direttrici: in pianura operava il grosso delle truppe mentre ai soldati polacchi era stata affidata la “Operazione Appennini” che da Bagno di Romagna prima e Santa Sofia poi puntava a completare l’accerchiamento del capoluogo conquistando i paesi della prima collina. Dopo aver raggiunto e liberato Rocca delle Caminate e le alture sopra il Ronco-Bidente, fondamentali per piazzare l’artiglieria, l’azione polacca si spostò verso i poggi che guardano dall’alto la città. Durissimi furono i combattimenti casa per casa fra Montefortino e Converselle, sopra Terra del Sole. Una volta conquistati questi poggi la città fu liberata, con le ultime presenze naziste in rotta verso la trincea allestita sul Lamone nella vicina Faenza. Un ruolo importante ebbero anche le formazioni partigiane, in particolare i gappisti della 29a brigata “Gastone Sozzi” e gli uomini delle “Squadre di Azione Patriottica” inquadrati nell’organizzazione logistica a supporto di quanto disposti dal Comitato di Librazione Nazionale, entrambi già presenti da tempo all’interno della città e nelle vicine campagne con diverse squadre armate. Diverso il discorso per il nucleo più grande attivo in zona, cioè l’8^ Brigata Garibaldi Romagna, i cui uomini vennero concentrati a Meldola e dopo essere stati usati dagli Inglesi per sondare l’entità della difesa tedesca nelle campagne fra Magliano, Carpena e Bussecchio, furono fermati alle porte della città. Forlì venne liberata il 9 novembre 1944 in uno scenario contrassegnato da morte, dolore e devastazioni.
Prima di abbandonare la città i tedeschi fecero saltare ponti, strade,impianti dell’elettricità e altre strutture fra le quali la Torre civica (che rovinando a terra distrusse l’antico Teatro comunale), il campanile del Duomo e il torrione dell’acquedotto di Ravaldino. La città liberata era ridotta a un cumulo di macerie, con il 60% del patrimonio edilizio annientato o fortemente danneggiato. Il Governo militare alleato e il Comitato di liberazione nazionale indicarono come sindaco Agosto Franco (proprio così, Franco era il cognome) e si preoccuparono di far fronte alle emergenze e di garantire operatività alle truppe alleate. Fino al termine della guerra Forlì divenne retrovia del fronte che, dopo la conquista di Faenza, rimase fermo sulla sponda del fiume Senio per tutto l’inverno. Fra le conseguenze di questa prossimità alla linea del fuoco ci fu anche il terribile bombardamento aereo tedesco del 10 dicembre 1944. Quel giorno, lo sganciamento di due potenti ordigni determinò centinaia di morti fra militari e civili oltre alla distruzione di due comparti cittadini: la chiesa di San Biagio e un nucleo di edifici storici in Corso Diaz, in particolare palazzo Merenda e palazzo Dall’Aste.
Furono mesi difficili ma la città seppe risollevarsi, grazie a un lavoro umile e instancabile. Immediatamente si pose il problema di far fronte alle emergenze: la fame, la necessità di acqua potabile e di una rete di distribuzione idrica efficiente, la mancanza di case per molte famiglie che avevano avuto la propria abitazione distrutta, il freddo rigido dell’inverno, i problemi igienici dovuti alle epidemie che seguivano la presenza degli eserciti (in particolare tifo e difterite) e alla drammatica presenza di cadaveri sparsi un po’ ovunque. Fra i primi provvedimenti adottati dal Governo militare Alleato, oltre alla distribuzione di farina, ci fu la presa sotto controllo di mulini e forni, la requisizione di combustibili e l’assegnazione di alloggi ai senza tetto. Fra i beni di prima necessità compariva il legname, utile per il riscaldamento ma anche per cuocere il pane, per ricostruire parti di edifici distrutti e per provvedere alla costruzione di bare. Legato a questo problema c’era quello dei trasporti che fu affrontato con la precettazione di camion. Il Governo militare alleato si preoccupò di avviare con massima urgenza la riattivazione di impianti per l’energia elettrica e strutture per la potabilizzazione dell’acqua. La politica angloamericana era orientata a considerare gli amministratori locali e i Comitati di Liberazione Nazionale come interlocutori politici – per via della loro influenza sulla popolazione – anche se cercavano di imbrigliarne le tendenze più rivoluzionarie facendo in modo che divenissero essi stessi i custodi dell’ordine pubblico. Nel forlivese e nel cesenate i rapporti fra Cln e alleati furono improntati ad una collaborazione venata da reciproca diffidenza. Non mancarono infatti scontri, anche aspri, come quelli dell’aprile ‘45 connessi alla decisione alleata di aumentare il costo del pane. In opposizione il presidente del Cln Domenico Bazzoli inviò un documento che stabiliva un prezzo molto inferiore, scatenando così la reazione delle autorità britanniche culminata con il suo arresto. Non mancarono tensioni, vendette e rese dei conti fra antifascisti e reduci. Dopo l’insurrezione nazionale delle città del nord, riconosciuta simbolicamente nella giornata del 25 aprile, ai primi di maggio si concluse il conflitto in Europa. Il 4 agosto 1945 terminò la giurisdizione degli alleati e la provincia di Forlì tornò a tutti gli effetti sotto il controllo del governo italiano.