Giuseppe Mazzini

Guarda la puntata de “La Storia siamo noi” dedicata a Mazzini

Un’intervista a Roberto Balzani pubblicata sul n. 229 di Una città (marzo 2016)

LA RIFORMA DELL’UMANITA’


Gli studi fondamentali, per il dibattito politico su Mazzini, di Salvemini e di Nello Rosselli; il periodo francese sansimoniano e poi l’incontro a Londra con gli operai in carne ed ossa; la polemica col socialismo che, non riuscendo a evitare le pulsioni egoistiche, perde; il legame fra cooperazione come unione di capitale e lavoro e “religione” umanitaria; le prime organizzazioni operaie, che sono mazziniane; il danno del nazionalismo repubblicano. Intervista a Roberto Balzani.

Roberto Balzani, storico, insegna Storia contemporanea presso la Facoltà di Conservazione dei Beni Culturali dell’Università di Bologna, sede di Ravenna.

Vorremmo che tu ci parlassi del rapporto fra Mazzini e il socialismo. Parto da due testi del Novecento, per poi riprendere dall’inizio.
Entrambi gli autori si occupano del rapporto fra Mazzini e il socialismo: Salvemini, col suo saggio su Mazzini (1905), e, dopo la Prima guerra mondiale, Nello Rosselli, con Mazzini e Bakounine (1927). Il primo si occupa della fase germinale del modello mazziniano, il secondo della crisi, della fase terminale del mazzinianesimo, vivente ancora l’Apostolo. Salvemini sostiene che Mazzini, fondamentalmente, si inserisce nel grande filone di riforma sociale che fiorisce in Europa intorno al 1830, in Francia in primo luogo ma non solo: un filone riconducibile alla famiglia di Saint-Simon, cioè all’idea che una grande alleanza dei produttori, contro i percettori della rendita, debba diventare il soggetto del rinnovamento europeo. Il lavoro, che funge da integratore di pezzi di società rimasti fino ad allora esclusi, è il concetto chiave del progressismo sociale ottocentesco. Questa, in sintesi, l’impostazione di Salvemini. L’idea invece di Nello Rosselli parte da una domanda: come mai, dopo l’unità d’Italia, Mazzini perde il contatto coi giovani, con la generazione post-risorgimentale, quella dei figli di chi lo aveva sostenuto? Perché questi giovani lo abbandonano per approdare all’Internazionale? Il giudizio di Rosselli è molto interessante anche perché, pur muovendo dalla critica alla tradizione risorgimentale, non è “tagliato con l’accetta”; Rosselli, in altre parole, tende a valutare anche gli aspetti grigi di questa fase, che ci sono certamente. Secondo Rosselli, l’abbandono di Mazzini sostanzialmente si gioca non tanto sul terreno sociale ma su una percezione di tipo politico: l’incapacità del vecchio leader di leggere un presente figlio di una doppia crisi: quella del garibaldinismo, anzitutto, e cioè la fine della possibilità di costruire l’Italia dal basso. Dopo Mentana (1867) si prende atto che, se mai si farà, l’unità d’Italia con Roma e Venezia non la farà il popolo: la generazione dei “nati troppo tardi”, venuti dopo l’epopea dei Mille, si trova improvvisamente déracinée, priva del “mito conclusivo” della rivoluzione nazionale. In secondo luogo, scoppia la crisi del macinato, che colpisce i ceti popolari: un’emergenza sia finanziaria, legata alle spese della guerra del 1866 e alla svalutazione della lira, sia economico-sociale, dovuta a cattive annate agrarie, che culmina appunto nella tassa sul macinato (cioè sulle farine) introdotta nel 1868 dalla Destra storica per inseguire il pareggio di bilancio. La combinazione di questi due elementi spinge i giovani “scapigliati” a credere nella necessità di una scorciatoia rivoluzionaria, mentre l’idea di andare avanti nella cooperazione, con capitale e lavoro nelle stesse mani, l’idea cioè di una nazione che evolve per integrazioni progressive, perde credibilità. Il sentimento di rabbia e di rigetto dell’ordine costituito esplode con la Comune di Parigi (1871), che, agli occhi di questi gruppi, sembra diventare il grande detonatore del futuro europeo.
Che posizione prende Mazzini sulla Comune di Parigi?
Mazzini riconosce il valore della Comune, della rivolta del Comune di Parigi contro lo straniero in quanto insurrezione popolare dotata di una sua legittimità; contesta, però, la visione bakuniniana che da essa fa discendere la prova generale dell’autogoverno dei produttori, cioè di una specie di federalismo autarchico, parente stretto del comunismo comunitario. Perché? Perché, per Mazzini, al di fuori della nazione non c’è integrazione sociale possibile per i ceti popolari. La frammentazione delle esperienze dal basso, in assenza del propulsore e del catalizzatore nazionale, non ha senso. Il che non significa (attenzione!) che debba essere lo stato a promuovere da solo le politiche d’integrazione sociale; possono (anzi, debbono) farlo anche le libere associazioni. Per Mazzini, fra la nazione (come quadro di valori e di mobilitazione politica) e lo stato, corre lungo tratto. Come vedremo. Da un certo punto di vista, egli è più indietro rispetto agli eventi, perché la sua critica risente della visione dei microstati ancora ottocenteschi; in realtà è più acuta, perché intuisce nella nazione l’integratore sociale per eccellenza, e sappiamo che così è poi avvenuto fra Otto e Novecento. Ma questo essere avanti e indietro insieme, essere avanti per ragioni non dovute a una lettura del contemporaneo, ma a un uso di categorie antiche, capita a ogni generazione, compresa la nostra. I due testi di riferimento che ho citato all’inizio non sono solo di storia, ma pure di riflessione politica: per Salvemini, essa coincide con la stagione del congedo dal partito socialista, cioè con quel momento magico della storia italiana in cui forse sarebbe potuto nascere davvero un partito federalista radicale di tipo moderno. Dall’altra parte, Nello Rosselli riflette sulla possibile saldatura di una sinistra frammentata dopo la Prima guerra mondiale, quando sembra rivivere, sia pure in altri soggetti -cioè nel partito socialista e in quello comunista-, l’alternativa fra la gradualità nel processo storico e l’opzione della rottura violenta. Tutto ciò per ricordare come il tema “Mazzini e il socialismo” non riguardi solo Mazzini, ma porzioni ampie della cultura italiana almeno fino alla metà del Novecento.
Anche la storiografia comunista si impossessa di Mazzini?
Nel 1953, quando Gastone Manacorda scrive Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi: dalle origini alla formazione del Partito socialista, a prevalere è una visione togliattiana, di tipo puramente evolutivo: prima ci sono le organizzazioni mazziniane che arrivano sino a un certo punto, cioè al mutuo soccorso, poi compare la lotta di classe che è l’evoluzione progressiva, l’inveramento dell’idea. Per cui Mazzini va iscritto fra gli antesignani, ma come gli utopisti è passato e ha lasciato il posto a quelli che fanno le cose sul serio. Questa è la lettura “pacificata” del 1950, promossa da Togliatti per assorbire tutto il Risorgimento democratico, compreso Mazzini. Cosa che non avevano fatto i socialisti all’inizio del secolo: quando Mazzini era ancora argomento “caldo” di dibattito politico dentro la sinistra, Alfredo Angiolini, che scrive la storia del socialismo e dei socialisti nel 1900, cita Pisacane ma non Mazzini fra gli anticipatori della “questione sociale”. I comunisti, viceversa, possono collocarlo nell’Olimpo dei precursori, perché è stato un patriota, perché è stato un protagonista dell’unità d’Italia, ecc.: a Togliatti va bene tutto, purché si tratti di una vicenda finita, incasellabile nella pura memoria culturale. Ritorniamo allora allo sviluppo del pensiero di Mazzini…
Nella sua parabola ci sono, secondo me, tre grandi fasi. La prima è quella degli anni Trenta, cioè del giovane Mazzini che entra in contatto con il mondo del primo socialismo francese. È una fase ancora molto dottrinaria, che indubbiamente risente, come dice giustamente Salvemini, dell’influsso diretto di Saint-Simon, cioè dell’idea di una grande alleanza del lavoro e dei produttori contro gli aristocratici e i rentiers. Siamo ancora in una stagione di transizione rispetto al XVIII secolo, quindi è ovvia la centralità del lavoro: una vera scoperta per le culture politiche. Fra il 1832-’33 Mazzini si sente vicino anche a posizioni giacobine, questa volta in virtù dell’influenza pratica del lessico e dei concetti delle società segrete buonarrotiane, che trasferiscono le parole d’ordine della Rivoluzione francese nella Carboneria. Egli ha perciò una visione non solo nazionale dell’intero processo, ma perlomeno continentale. Per lui, la cospirazione per il progresso sociale ha senso solo su scala europea: in questo incontra una sensibilità umanitaria diffusa in epoca romantica, poi estinta già nella seconda metà dell’Ottocento. Questa fase si esaurisce con l’esilio in Inghilterra. Lì Salvemini lo abbandona, perché Salvemini studia Mazzini fino a che non approda a Londra (1837), dando per scontato che poi sarebbe rimasto quello che era. Ma non è vero, perché Mazzini, in Inghilterra, si confronta non più con un socialismo solo teorico ma con la sua pratica applicazione, cioè con l’organizzazione operaia vera, quella che si sta creando a Manchester, e che darà poi origine anche agli studi di Engels sulla classe operaia. Lì si rende conto che la sinistra inglese, legata alle esperienze delle trade unions e del cartismo (rivendicazione di diritti politici che devono finire in una “carta del popolo”), vuole costruire un’opinione pubblica solidale. Ha bisogno, cioè, di saldare alla lista delle rivendicazioni -che sono il suffragio universale, il miglioramento delle condizioni di vita degli operai, la cooperazione, la partecipazione sindacale, ecc.- una visione che sostenga queste battaglie e le consideri moralmente superiori a quelle emergenti dallo scontro in atto in quel momento nella società inglese: che non è tanto fra lavoratori e capitalisti, come racconta Marx retrospettivamente, ma fra capitalisti e proprietari terrieri, vale a dire i rentiers che vorrebbero ad esempio mantenere alti i dazi sul grano. Mazzini si rende conto della necessità dell’elemento umanitario ed empatico in quanto legame spontaneo e vettore di comunicazione. Lo vede calato nella prassi dei meetings, delle raccolte fondi, delle scuole popolari, perché il mondo britannico radicale cui fa riferimento è un laboratorio efficace: ci sono idee non conformiste, non solo legate alla chiesa d’Inghilterra, di matrice protestante, a volte calvinista, a volte semplicemente razionaliste/deiste; c’è insomma un pluralismo religioso che interseca le battaglie politiche e sociali. E ciò gli piace molto. Infine, ci sarà la fase successiva alla caduta della repubblica romana (1849), nel corso della quale si riapre un dibattito teorico sullo sviluppo del socialismo in Europa; e qui i suoi interlocutori saranno fondamentalmente Marx, Leroux e Proudhon. È quello il momento in cui effettivamente prende le distanze dal socialismo per proseguire per la sua strada. La sua idea di fondo si basava sul presupposto che la riforma sociale non implicasse lo scontro diretto con la proprietà, col capitale, con la nazione. Sfidare frontalmente questi tre “attori”, considerandoli dei fini, avrebbe significato sconfitta certa; considerandoli dei mezzi, li si poteva utilizzare come integratori sociali. Questa era la sua idea. Per cui, riguardo al tema della proprietà -uno dei nodi dello scontro con Leroux e Proudhon negli anni Cinquanta-, il problema non stava nella sua esistenza, ma nel fatto che fosse esclusiva, di pochi: si trattava quindi di dare il senso della proprietà a tutti quelli che l’avessero cercato: una proprietà legittima, fondata sul lavoro. Rispetto poi al tema nazionale, secondo lui non si poteva pensare di mobilitare le classi operaie, in Europa, contro la più grande forza di integrazione sociale del secolo, ovvero la nazione. Se è vero che la nazione rischia di portarti dritto al nazionalismo, però ti dà la scuola, ti dà, cioè, gli strumenti dell’emancipazione. Dove li trovi altrimenti? Nella comune operaia o contadina? È chiaro che tutto ciò s’inserisce in una visione di riforma sociale. Questo è il suo punto di vista, che però rimane teorico fino all’unità d’Italia, dopo la quale, con la sopraggiunta libertà di associazione, diventa pratica: perché Mazzini è l’unico che, negli anni Sessanta, prova a creare società democratiche e di mutuo soccorso con un taglio politico. Mazzini rivendica di essere stato il primo teorico della cooperazione, come forma di associazionismo che mette capitale e lavoro nelle stesse mani, quando non ci credeva nessuno. Ed è anche consapevole che il suo modello implicherebbe applicazioni in chiave politica. Ma si tratta solo di un’intuizione: la struttura cooperativa non riuscirà a sviluppare la componente partecipativa, cioè politica, legata soprattutto alla destinazione di una quota degli utili; il ritorno sociale della cooperazione rimarrà questione irrisolta. Anche perché Mazzini muore nel 1872, e lui era solo all’inizio del percorso. Come abbiamo detto, i giovani della fine degli anni Sessanta già non lo capiscono più.
In Italia quindi le prime organizzazioni operaie sono mazziniane?
Le prime organizzazioni operaie sono quelle liguri e piemontesi degli anni Cinquanta, infiltrate da mazziniani, ancora obbligatoriamente apolitiche da un punto di vista formale, ma che si politicizzano grazie alla predicazione di Mazzini. È lui che indica la strada per mettere insieme capitale e lavoro in una visione integratrice, sostanzialmente laburista. Questo è il motivo per cui -lo scrive Eugenio Biagini, uno studioso di Cambridge che si è occupato del liberalismo di massa inglese- Mazzini è il politico italiano più citato dal laburismo inglese nella fase costitutiva del partito. Lo considerano un precursore, perché tiene insieme l’elemento umanitario, una forma di religiosità laica, con l’elemento dell’integrazione sociale, che vedeva complanari. Possiamo ben dire che Mazzini è molto più compreso nel mondo anglosassone di quanto lo sia da noi, perché dopo la sua morte in Italia la dimensione internazionale del suo pensiero si perde: Mazzini viene nazionalizzato, diventa patrimonio dei repubblicani che devono fare la repubblica in Italia, la qual cosa non era certo il suo problema fondamentale. Mazzini lottava per “riformare l’umanità”. Una cosa leggermente diversa…
Sembra di capire che sia stata l’esperienza inglese quella fondamentale…
Intanto teniamo presente che quando Mazzini sbarca in Inghilterra era un giovane che aveva fatto l’università a Genova, che aveva qualche amico, che non aveva mai visto una fabbrica vera (al massimo l’arsenale e i portuali) e che era stato messo in galera… Insomma, era uno la cui esperienza era molto modesta, diciamolo pure. Per capire quanto sia importante l’Inghilterra, basta notare come, arrivandoci, Mazzini aggiorni il suo lessico. È in Inghilterra che impara a usare la parola democrazia, che, fino ad allora, lui intendeva “alla greca”, come una sorta di degenerazione del governo dei più. Gli eredi dei giacobini preferivano, invece, parlare di “governo sociale” o di socialismo come governo sociale. Adotta poi la parola “operaio”, che in Italia non aveva alcun senso. Quando a Londra, nel 1840, pubblica l’“Apostolato popolare”, il primo giornale operaio italiano, si rivolge appunto agli operai. Ma a quali operai? Beh, è una semplificazione ideologica, perché “gli operai italiani” non ci sono, perché sono immigrati che fanno i muratori, gli imbianchini, i carpentieri, i decoratori, i suonatori di organetto: un po’ come oggi potrebbero essere, non so, i romeni, gli slavi, che hanno delle abilità e fanno lavoretti. Questo insieme di abilità non fanno una classe operaia consapevole. Ma Mazzini con la parola operaio vuole dar loro un connotato culturale di orgoglio, perché vede che funziona per gli inglesi; perché là i workers ci sono veramente e si organizzano nelle trade unions. Allora -sostiene- occorrerà che anche nel nostro piccolo nasca l’orgoglio del lavoratore. Che per lui, però (attenzione!), resta un orgoglio di funzione, non di classe. Lo dice esplicitamente: quella dell’operaio è una funzione sociale -e questo è Saint-Simon-, non antagonista: è un elemento di arricchimento della società. La classe più povera è più numerosa e deve avere riconosciuti diritti civili, però il tutto in un’ottica di costruzione, di solidarietà, di emancipazione. Il giornale è incomprensibile per quelli che lo leggono in Italia, perché nell’Italia del 1840 “operaio” è una parola che non esiste. Se voi prendete gli atti del censimento del 1861 a Forlì, il primo censimento, trovate i mezzadri, i coloni, i fabbri ferrai, gli apprendisti, i bottai, i canapini: ci sono i mestieri, ma non c’è la parola operaio. Possiamo immaginare quelli che nel 1840 in Italia leggono clandestinamente l’“Apostolato”: cosa mai avranno inteso? Probabilmente poco o niente. Ma è un’operazione che Mazzini ritiene necessaria per costruire per la prima volta in lingua italiana un’identità del lavoro. C’era qualcuno che avesse scritto una riga consapevole in questa maniera, in Italia? Nessuno. È il primo che lo fa. Anche l’espressione “classe media” Mazzini comincia a usarla al posto di “borghesia”, quando osserva che la borghesia non è tutta uguale: ci sono i capitalisti, ma poi c’è un ceto medio, fatto di professionisti, commercianti, funzionari, artigiani. Ma siamo nell’Inghilterra del 1840-’50: in Italia era difficile che lo capissero. Il tema della ricezione del mazzinianesimo è un’altra questione aperta: che cosa restava, negli affiliati alla Giovine Italia o al Partito d’azione, una volta che si erano letti testi formulati così? Quali idee si depositavano sul fondo delle coscienze, posto che Mazzini era un “leader assente”, invisibile, avvicinabile solo attraverso il “monumento di carta” della sua opera scritta? Le ricerche in proposito sono poche, ma quelle poche indicano una forte divaricazione fra il messaggio e la ricezione. Come è plausibile, d’altronde. In Inghilterra Mazzini aveva imparato l’inglese, scriveva in francese: era diventato un catalizzatore di concetti, ma questo si capisce benissimo anche attraverso le sue percezioni del mondo. Per esempio, fino a che rimane in Francia, quando parla di riassetti dell’Europa, non vede i popoli slavi. Non li legge. Infatti sostiene che in futuro dovrebbero formarsi una grande Polonia e una grande Ungheria a contenimento della Russia, che spingeva sugli stretti e sull’impero ottomano. In Inghilterra incontra una marea di esuli che vengono da quella che oggi è la Repubblica Ceca e dalla Slovacchia, conosce gli slavi del sud, comincia a sfogliare testi aggiornati e infatti, negli anni Quaranta, cambia continuamente la sua mappa mentale; e allora compaiono pure i popoli dell’Europa orientale e dei Balcani. Pensate a una persona che si trova improvvisamente di fronte a una quantità enorme di informazioni nuove. Come Marx, passava le giornate a studiare, a leggere giornali di tutto il mondo, in quella che in quel momento è la capitale del mondo. È chiaro che prende e succhia idee ovunque. Poi incontra le persone. Doveva essere un divertimento pazzesco per uno che veniva da Genova, da un angolo oramai remoto dell’Europa…
Ci puoi parlare di questa sua “religione” umanitaria?
Come abbiamo detto, Mazzini fa parte del pensiero sociale riformatore dell’Ottocento. Non dobbiamo dimenticare, però, il secondo aspetto della sua visione: quello “umanitario”. Per lui tutte le riforme sociali -capitale e lavoro nelle stesse mani, governo popolare, ecc.- devono comunque essere incluse in una relazione umana che cambia qualitativamente; la cui qualità, cioè, non può essere letta con la lente dell’egoismo ma con quella dell’empatia, della benevolenza, del fraterno aiuto. Se non c’è tale predisposizione -lui dice- non può funzionare la riforma sociale, perché, in presenza di meccanismi di tipo puramente egoistico, il capitalismo è assai più efficiente. Sta lì la sua critica al materialismo, che postula un automatismo strutturale nella trasformazione economica, dettato da leggi precise, senza la necessità di un’adesione volontaria dal punto di vista umano. Per lui, invece, nessun processo di riforma sociale può avvenire seguendo un algido automatismo: ci dev’essere una base umanitaria, una base morale prerequisito dell’azione. Che poi Mazzini attribuisse a tale impulso una forma religioso-umanitaria importa relativamente: allora questi erano i paradigmi con cui ci si esprimeva, soprattutto se si voleva dialogare con il popolo. Egli pensava a una sorta di grande sintesi di tutte le religioni, a una specie di distillato delle “regole d’oro” di ciascuna. Era la sua utopia. Per tutta la vita inseguì quest’idea, aveva scritto addirittura un libro di cui perdette gli appunti, ma il suo punto di vista non mutò col tempo: saldando le parti che in ogni forma di religione positiva erano diventate massime universali e non potevano, cioè, non essere condivise da tutti gli uomini e le donne del pianeta, si sarebbe riusciti a estrarne un concentrato, a produrre una morale umanitaria universale, un libro delle “regole d’oro”. Aveva infatti cominciato a studiare il buddismo, le religioni orientali. Ciò che a noi interessa osservare qui è l’idea della non autosufficienza dell’economia quando si tratta di riforma sociale. Non basta dire che deve aumentare il benessere dei più, perché questa affermazione, assunta in sé, comunque si scontrerà con logiche di profitto e di egoismo che vanno in direzione contraria. Ci vuole una forte base umanitaria per reggere lo scontro con quelli che sono i meccanismi egoistici, quelli, ahimé, automatici, della natura umana. Alla fine la sua critica al mondo liberale sta proprio in questo: i liberali fanno riferimento -in economia- a elementi istintivi benché razionalizzati (il maggior guadagno possibile per sé, la ricerca di posizioni dominanti nel mercato, l’aumento dei profitti, ecc.), che danno loro un vantaggio competitivo strabiliante.
Ma sta qui anche il fondo della critica a Marx?
Il culmine di questa fase è il 1847, quando apre una polemica sulla democrazia in Europa, antesignana del primo scontro con Marx e con quelli che diventeranno il gruppo comunista tedesco, esuli pure loro. La sua critica al rischio implicito nel comunismo è veramente impressionante per lucidità: senza l’elemento morale della religione umanitaria, voi andrete a costruire una dittatura di stato nella quale la classe dei rivoluzionari diventerà la classe egemone e terrà sotto il proprio tallone di ferro gli operai, sfruttandoli come fanno oggi i capitalisti. Voi non eliminerete, quindi, l’elemento egoistico che è la componente della natura umana da contenere e da anestetizzare con l’empatia e con la ragione. Ma lo dice con una lucidità notevole, quasi profetica. E dopo il fallimento del ’48, quando il mondo socialista e comunista afferma che le rivoluzioni democratiche, incentrate sulla rivendicazione della costituzione e del suffragio universale, non bastano; che ci vuole un processo rivoluzionario diverso, Mazzini riconoscerà l’esigenza di un salto di qualità nell’azione rivoluzionaria (per lui a scala continentale), riaffermando tuttavia il principio secondo il quale, senza base umanitaria, neppure questo funzionerà.
È uno scontro che dura diversi anni, mentre il consenso alla sua posizione, in Italia -soprattutto per effetto della “concorrenza” garibaldina sul terreno della politica nazionale-, comincia a ridursi. Infine c’è l’ultima parte, quella dell’esperimento italiano, dopo il 1861: una parte poco conosciuta, analizzata da Nello Rosselli. Dopo l’unità d’Italia, come fa Mazzini a dimostrare che la sua strada è ancora quella valida? Tenendo aperte le due opzioni, sostiene Nello Rosselli. Da un lato quella della rivoluzione europea contro le teste coronate, per l’emancipazione dell’Europa e dei suoi popoli; dall’altra l’unione di capitale e lavoro nelle stesse mani attraverso il mutuo soccorso e la cooperazione. Ma, come abbiamo detto all’inizio, l’accelerazione della crisi e l’impossibilità di fare la rivoluzione in Europa dopo il 1870, sembrano rendere obsolete queste posizioni. Con la conseguenza che il pensiero di Mazzini dopo Mazzini è un pensiero che si nazionalizza, che smarrisce la visione umanitaria mondiale, che smorza l’afflato originario, il suo tratto caratteristico principale.
Ecco, il problema del nazionalismo…
Per Mazzini, l’Europa dei nazionalismi non è l’Europa delle nazionalità. Dici: “Va beh, sono sottigliezze nostre”. Non è vero. Egli scrive su “La Roma del Popolo” uno dei suoi ultimi articoli intitolato Nazionalità e nazionalismo che potrebbe essere pubblicato oggi sul “Corriere della sera”! Lì spiega chiaramente che cos’è il nazionalismo e come sia diverso dallo spirito di nazionalità, cioè dalla via dell’emancipazione dei popoli indirizzata a un governo mondiale. E non è che Mazzini non usi un lessico aggiornato: egli è assolutamente consapevole di quello che dice: a fine 800, in Italia, affrontava un problema tipico del XX (e anche del XXI) secolo! Quando vede l’Europa chiudersi nel nazionalismo, fra la guerra di Crimea (1854-’56) e la guerra franco-prussiana (1870), che segna la nascita delle “nazioni nazionaliste”, capisce che la possibilità di cambiare le regole del gioco è praticamente esaurita. La grande crisi del ’48, il momento magico, è svanito, e anche lo stesso caso italiano non mostra il segno emancipazionista che avrebbe desiderato, quando aveva pensato che la missione dell’Italia in Europa fosse quella di anticipare la creazione di libere nazionalità solidali. Allora, negli anni Sessanta, Mazzini volge lo sguardo agli Stati Uniti e immagina un’associazione democratica, un’Alleanza repubblicana universale, con due repubbliche (una virtuale e l’altra reale), l’Europa e l’America che si danno la mano. Dopo la guerra civile, egli vede negli Stati Uniti un paese che ha scelto la strada dell’abolizionismo. In realtà non è esattamente quello che accade, ma la percezione esterna è quella di una repubblica abolizionista, quindi avviata verso forme di democrazia avanzata: il nuovo polo al quale i popoli emancipati potrebbero guardare. Se avesse avuto segnali da altre parti, si sarebbe indirizzato anche altrove. Egli cercava d’intravedere, dove possibile, le espressioni germinali di una “internazionale democratica”. Ed è quindi plausibile che il suo punto di vista abbia potuto influire su Gandhi in India o su Sun Yat-sen in Cina. Possiamo ben dire che è un autore dotato di una capacità di comunicazione su una scala mondiale. Il che rende abbastanza buffo che nel nostro paese lo si sia ridotto alla lettura nazionalista fatta ex post…
Beh, il fascismo ha contribuito…
Il fascismo sicuramente, ma il danno maggiore l’avevano già fatto i repubblicani. Anche l’irredentismo è stato, secondo me, un elemento di inquinamento enorme della vita politica europea. Non c’è solo l’irredentismo italiano: nello stesso periodo c’è quello irlandese, che pure assume caratteri autoctoni e non di integrazione nella lotta per l’emancipazione dei popoli a livello continentale. Il discorso sarebbe lungo, ma l’irredentismo è sicuramente un modo attraverso cui il repubblicanesimo si nazionalizza fortemente. Ma ciò avviene dopo Mazzini. Stiamo parlando del 1877-’78. In fondo, il fascismo non fa altro che attribuire un formato da educazione civica a quello che il repubblicanesimo, morto Mazzini, aveva sostanzialmente già proposto: trasformarne il pensiero in uno schema, nel quale nazione e repubblica sono paradigmi fissi, non dinamici, e come tali predisposti a essere inseriti in una visione teleologica del processo costitutivo dello stato-nazione risorgimentale.
A quel punto cosa rimane della sua visione umanitaria?
Quel pensiero sopravvive solo in alcuni punti d’Italia, grazie ad alcune famiglie di mazziniani integrali come Giorgina e Aurelio Saffi a Forlì, i Nathan Rosselli a Pisa, i Sacchi a Mantova. Non compresi da nessuno.

(a cura di Tonino Gardini e Gianni Saporetti)

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