Infuocata di passione politica, temprata dalla fatica del lavoro nelle campagne, nelle botteghe artigiane e nei primi grandi stabilimenti industriali, cadenzata dal ritmo lento della periferia con una tradizione per l’arte e lo spettacolo desiderosa di allargare i propri confini a sprazzi di mondanità: così si presentava Forlì alla fine del primo decennio del Novecento. La città stava cambiando fisionomia e già appariva differente, sia dal punto di vista fisico che nella connotazione sociale, rispetto a quella dei decenni postunitari. Erano apparsi grandi stabilimenti industriali, come lo zuccherificio Eridania e la Filanda di Porta Schiavonia (di proprietà Bonocossa e poi Majani), le mura di cinta sarebbero state progressivamente demolite, i sobborghi stavano diventando parte del tessuto urbano in espansione.
Un evidente miglioramento agronomico aveva interessato le campagne mentre l’associazionismo nelle sue differenti espressioni, dalla rappresentanza dei lavoratori alla cooperazione, appariva come un elemento strutturale della vita cittadina, sempre più orientata ad assegnare valore al concetto di massa, lo stesso che vedeva nei nuovi partiti popolari i protagonisti della scena politica.
Il “Cittadone”
Secondo il censimento nazionale del 1901, il numero degli abitanti era assestato poco oltre le 43 mila persone, con 15.298 unità nel centro urbano delimitato dalle antiche mura di cinta e 27.847 fra i nascenti sobborghi fuori-porta (Ravegnana, Romiti, Ravaldino) e, soprattutto, le frazioni rurali e le case sparse nella campagna.
La fisionomia politica del “Cittadone”, questo il nome nella vulgata romagnola, mostrava tuttavia caratteristiche particolari rispetto alla maggior parte delle città del centro e del nord Italia; peculiarità che condivideva con le vicine Cesena e Ravenna perché in virtù di un tessuto sociale comune riusciva ad essere, allo stesso tempo, ribelle nei confronti della monarchia (seguendo però un modello “personalizzato” rispetto a quanto stava avvenendo nelle altre roccaforti “rosse” d’Italia) e disciplinata all’autorità del governo municipale che dal 1901 era passata nelle mani del partito repubblicano affiancato, in un’alleanza turbolenta, dal partito socialista.
Che la comunità fosse insofferente alla mordacchia dello stato sabaudo era apparso evidente fin dai tempi delle annessioni al Regno d’Italia e ben poco significava la relativa quiete che aveva consentito nel 1888 la visita del re Umberto I. Al diffuso sentimento antimonarchico si sommava una consolidata secolarizzazione nel rapporto fra politica e religione, con i maggiori partiti popolari (repubblicano e socialista, perché ancora il mondo cristiano non era organizzato in strutture di militanza politica) scrupolosamente attenti a connotare di laicità ogni segno civico. Lo stesso mondo cattolico si era messo in discussione e, seguendo la linea di impegno sociale dell’enciclica Rerum Novarum, vedeva crescere una nuova generazione che stava interpretando in modo innovativo il proprio ruolo. In questi anni il sogno della repubblica continuava ad ardere e non si trattava dell’esclusiva d’una famiglia politica perché dal mondo mazziniano a quello socialista, dagli internazionalisti agli anarchici, senza escludere ambienti dello stesso movimento cattolico, erano in tanti a considerare fra le priorità la speranza di vedere assegnata supremazia alla “cosa pubblica” rispetto ai privilegi e all’ingiustizia rappresentati dalla corona. Poi c’era la fiamma della rivoluzione che ardeva in settori estremisti, pronta a divampare nei momenti in cui i condizionamenti dettati dalla tradizione pragmatica e municipalista dei partiti di sinistra venivano soverchiati dalle questioni nazionali. Come accennato, il dato specifico risiedeva proprio in questo aspetto: l’intemperanza contro lo stato monarchico, contro il governo nazionale (seppur connotato dai percorsi di apertura improntati da Giovanni Giolitti) e contro le istituzioni che li rappresentavano, forze dell’ordine in testa, si misurava con il rispetto nei confronti del governo municipale che fu il principale motore del cambiamento.
La Forlì di inizio Novecento era figlia, anzi nipote, di quella risorgimentale.
Nel passare in rassegna biografie e vicende emerge la volontà espressa dalla nuova classe dirigente (quella che ebbe come principali esponenti Giuseppe Gaudenzi e Giuseppe Bellini, Aurelio Valmaggi e, poi, i giovani rivoluzionari Pietro Nenni e Benito Mussolini) di riappropriarsi dei valori della generazione che visse le stagioni della Giovine Italia e delle campagne garibaldine, il sogno della Repubblica Romana del 1849 e la durezza della repressione pontificia e austriaca, le scariche di adrenalina per la tentata presa di Roma nel 1867 o per la Comune di Parigi. Il punto di riferimento era la generazione di Aurelio Saffi e Giovita Lazzarini della quale alcuni dei primi eredi non erano considerati degni. Il giudizio più netto in tal senso riguardava il più potente uomo politico del territorio fra gli anni ’80 e l’inizio del nuovo secolo: Alessandro Fortis.
Nelle logiche delle “giunte rosse” di inizio secolo, all’intransigenza sull’idea di progresso e sui valori di giustizia sociale, faceva da contrappunto la spietatezza nei confronti dei voltagabbana. Tagliando i punti con le esperienze trasformistiche e consociative che Gaudenzi e compagni interpretavano come atti di tradimento, la trama politica sembrava animata dalla volontà di riprendere in mano il filo risorgimentale primigenio. Era un comune sentire che l’anima risorgimentale democratica ed egualitaria fosse stata tradita nelle aspettative economiche, sociali e politiche dopo l’unità dalla monarchia sabauda. Le colpe venivano individuate sia nelle scelte di emarginazione messe in atto dai governi centrali, sia nell’immobilismo del notabilato aristocratico e moderato che governò (grazie a una legislazione elettorale che restringeva in modo sensibile il numero dei votanti) nei primi decenni del regno. Fino alla morte avvenuta nel dicembre del 1909, e anche dopo, il grande emarginato dalle “giunte rosse” fu proprio Alessandro Fortis al quale non fu perdonato il passaggio dall’Estrema a posizioni sempre più moderate e vicine alla corona, corroborate dalla creazione di un sistema affaristico e consolidate grazie a ruoli nei governi nazionali, dall’esordio nel gabinetto Crispi fino alla presidenza del Consiglio dei ministri nel 1905.
La nuova classe dirigente tagliò i ponti non dimenticando il “tradimento” perpetrato a partire dal 1888 (anno della visita del re Umberto I in Romagna e dell’ingresso di Fortis nella compagine governativa come sottosegretario all’Interno) e attribuendo a lui la responsabilità politica del drammatico fallimento, deflagrato nel 1894, della Banca Popolare di Forlì, l’istituto di credito gestito da “suoi” uomini come Giuseppe Brasini e Livio Quartaroli. Il crack fu devastante e determinò la rovina per numerose attività commerciali, artigianali, imprenditoriali, causando disastri nei portafogli di tante famiglie.
In quei mesi funesti dell’ultimo frammento di secolo ci fu chi andò in rovina, chi vide svanire i propri risparmi e chi addirittura lavò con il suicidio l’onta e il disonore, come accadde a Quartaroli. Invece Fortis rimase in sella malgrado tutto e nonostante la sconfitta nel collegio di Forlì nel 1897 ad opera di un mazziniano intransigente, Antonio Fratti, anche lui con un passato da garibaldino e un presente fatto di battaglie per contrastare la povertà, per favorire l’emancipazione sociale e contro lo sfruttamento della prostituzione. A quel punto Fortis trovò rifugio e un seggio sicuro in feudo moderato del Lazio grazie al quale continuò la sua attività politica raggiungendo, come si è visto, il più alto grado nel governo nazionale. Invece il vincitore Fratti, con magistrale coerenza allo spirito garibaldino e a dispetto dell’età avanzata, decise di partire con il contingente italiano accorso in aiuto dei Greci nella guerra contro l’Impero Ottomano. E a Domokos morì. Correva l’anno 1897.
Fortis continuò sempre a mantenere rapporti con la sua città. Fu lui a trovare le risorse per edificare la Casa circondariale a Ravaldino e a far da tramite per l’arrivo dello zuccherificio Eridania negli anni a cavallo del secolo. Nel frattempo, però, l’esito delle elezioni amministrative del luglio 1901 per il rinnovo, secondo la legge dell’epoca, della metà del consiglio comunale decretò la forte affermazione dell’alleanza fra repubblicani e socialisti che si erano uniti nel Blocco popolare. A loro spettarono 16 candidati a fronte di 4 consiglieri espressione delle forze moderate. Il segnale fu chiarissimo e il notabilato moderato dovette cedere la guida della città alle giovani forze che, incarnando su scala locale il mandato dei neonati partiti di massa, conquistarono il Municipio. Alla carica di sindaco fu designato l’avvocato repubblicano Giuseppe Bellini che chiamò al suo fianco tre assessori repubblicani (Decio Bovelacci, Egisto Ravaioli e Giuseppe Gaudenzi) e il socialista Edgardo Masini.Nel dicembre di quello stesso, il 1901, fu costituita a Forlì la Camera del lavoro che aggregava su base territoriale tutti i lavoratori a prescindere dalla loro categoria. Le colonne portanti risultavano essere gli iscritti repubblicani, che figuravano in numero maggioritario, e quelli socialisti. Il sindacato unitario divenne così il luogo delle rivendicazioni di categoria e di quelle generali ma anche l’organismo politico in cui l’elemento di mediazione dei conflitti si abbinava alle azioni di lotta e di emancipazione, passando dal coordinamento organizzativo e dalla promozione sociale e culturale dei lavoratori attraverso corsi di formazione, biblioteche, università popolari.
L’alleanza del Blocco popolare ebbe una vita tormentata. Già all’inizio del 1902 l’assessore socialista rassegnò le dimissioni e a distanza di nemmeno un anno si consumò una prima rottura con gran parte del gruppo consiliare socialista che si dimise dall’assemblea civica. La diversità di vedute su alcune questioni non risultò sovrastante rispetto alla consapevolezza delle forze di sinistra di poter incidere in modo determinate sulle molte scelte e nel volgere di alcuni mesi le divergenze si smussarono e il Blocco di ricompose, pronto a conquistare nuovamente il palazzo nelle elezioni amministrative del dicembre 1905.
Nel 1902, intanto, era avvenuto un fatto di particolare valore simbolico, che impresse le insegne della nuova identità politica. Dopo la morte a Domokos, i resti di Antonio Fratti (l’avversario diretto di Fortis, colui lo aveva sconfitto) vennero traslati dal luogo nel quale erano stati sepolti in Grecia alla sua città.
Per accogliere la salma furono organizzati imponenti manifestazioni popolari nella piazza centrale e lungo la Ravegnana, una vera e propria liturgia civica che terminò con un lunghissimo corteo funebre verso il cimitero monumentale dove avvenne la sepoltura nel Pantheon.
Il ruolo di uomo-guida di questa fase va indubbiamente riconosciuto a Giuseppe Gaudenzi. Classe 1872, Gaudenzi (la cui famiglia portava il nome dialettale di “Panocia”, cioè “Pannocchia”) era nato a Terra del Sole allora in provincia di Firenze ma a pochi chilometri da Forlì nel cui territorio comunale si trasferì con la residenza a Pievequinta.
Fin da giovanissimo partecipò alla vita politica muovendosi tra il mondo delle società operaie e la pubblicistica. Durissimo nei confronti della direzione del Circolo Mazzini in occasione del fallimento della Banca popolare, subentrò a Quartaroli nella guida della più potente realtà repubblicana forlivese e, poco dopo, pure alla testa della Consociazione repubblicana romagnola. Nel 1894 fondò il giornale “Il Pensiero romagnolo” e in occasione delle elezioni comunali della primavera dell’anno seguente, da quelle pagine scagliò una durissima campagna contro monarchici, clericali, governo Crispi che gli costò una condanna a 10 mesi. Nel settembre del 1895 la morsa repressiva si abbatté sulla Consociazione Repubblicana Romagnola che venne sciolta con decreto della Prefettura.
A Gaudenzi è strettamente collegata la nascita del Partito Repubblicano Italiano del quale fu, dall’aprile 1895 al maggio 1897, Segretario nazionale. Incarnando il ruolo di guida in differenti situazioni, costantemente come capopartito, ma ora consigliere comunale e assessore, ora come parlamentare e pure in qualità di sindaco (o meglio di “prosindaco” vista la volontà di non prestare giuramento di fedeltà al re), egli fu durante il primo quindicennio del XX secolo il principale fautore del programma di innovazioni portato avanti dal Comune che prese forma attraverso le “municipalizzazioni” dei servizi (in particolare quelli dell’acquedotto e del gas per l’illuminazione pubblica), la creazione di infrastrutture, la costruzione del nuovo Ospedale, l’edificazione di case popolari, il sostegno alla cooperazione e al movimento sindacale, l’attuazione di nuove politiche fiscali con l’apertura del centro urbano, senza più i vincoli tributari del dazio pagato alle “barriere” che avevano sostituito le porte d’accesso dell’antica cinta muraria e che, proprio come conseguenza di questa funzione non più necessaria, cominciò ad essere demolita. Il peso specifico esercitato in politica lo portò a misurarsi con le elezioni parlamentari e a diventare parlamentare nel novembre del 1904. Rimase in Parlamento nelle due legislature seguenti, sempre fra i rappresentanti dell’Estrema Sinistra, distinguendosi per l’attenzione ai temi di carattere sociale.
Anno cruciale di questa prima fase fu il 1905 che si aprì con un confronto dai toni crescenti incentrato sull’ipotesi, avanzata dalla giunta comunale e dal sindaco Bellini, di enfatizzare simbolicamente il valore del costruendo acquedotto con la realizzazione di una fontana nella piazza centrale. L’opera avrebbe comportato lo spostamento della Colonna della Beata Vergine e a metà del mese di maggio comparvero i cantieri. Le proteste del mondo cattolico e non solo, però, furono vibranti e al termine di un’azione guidata direttamente dal vescovo Raimondo Jaffei con richiami ai vincoli legislativi, iniziative pubbliche e una larghissima sottoscrizione popolare, la Prefettura intervenne decretando il blocco, sul nascere, dei lavori.
Ad appena un mese di distanza da quel maggio agitato la furia della natura si abbatté sul territorio romagnolo.
Era il 23 giugno quando un uragano sconvolse Forlì con pioggia, grandine e bufera travolse anche, sfondando vetri, distruggendo case e tettoie, sradicando tantissime piante e provocando allagamenti. Numerosi i feriti, con una ventina di ricoveri in ospedale, e danni ingentissimi all’agricoltura, tanto da indurre il prefetto a dichiarare lo stato di emergenza. Per alleviare il peso del disastro naturale, il Governo che in quei mesi era presieduto proprio Alessandro Fortis (padre fra l’altro della nazionalizzazione delle ferrovie), estese alla Romagna la legge sulle calamità naturali già vigente per il Veneto consentendo interventi e aiuti nel campo del credito.
Ma l’elemento che contrassegnò simbolicamente il periodo, portando a sintesi tutti gli ingredienti del nuovo corso politico, sociale e modernizzatore in atto, fu la costruzione del torrione del civico acquedotto.
La struttura venne eretta accanto alla Rocca di Ravaldino, in un luogo dall’altimetria funzionale alle necessità della rete idrica e vicino al punto in cui, ancora durante le repressioni ottocentesche contro i patrioti, erano state consumate esecuzioni capitali. Nella grande cisterna, inaugurata il 9 novembre, giungeva l’acqua attinta dai grandi pozzi realizzati a Bussecchio.
L’imponente opera architettonica recava nella porzione inferiore, a portata di vista, una epigrafe che le assegnava ulteriori significati. Il testo scritto nella lapide era stato dettato dal maestro repubblicano Pio Squadrani e recitava così: “Qui ove piombo straniero e mannaia papale eran ministri di morte i partiti popolari reggendo la cosa pubblica demolite le medioevali barriere daziarie fecero erigere con le stesse pietre questo acquario perché sul luogo già del terrore da pura fonte fluisca in tutti i cittadini la salute e la vita”.
Il risultato conseguito in pochi anni dalla prima amministrazione popolare contribuì definitivamente a ricucire lo strappo che si era consumato fra repubblicani e socialisti che, in preparazione della scadenza elettorale di fine anno, ritrovarono definitiva unità. E nel dicembre 1905 l’esito delle elezioni amministrative delineò la fisionomia dalla rappresentanza politica.
Lo scrutinio assegnò 28 consiglieri al Partito repubblicano, 8 a quello socialista, 2 indipendenti espressione del mondo radicale e solo 2 moderati. L’aristocrazia liberale si trovava all’angolo, allontanata dai centri di potere amministrativo e incline ad arroccarsi in difesa dei patrimoni.
La rinnovata fiducia ai partiti popolari suonava come volontà di proseguire lungo la strada della modernizzazione puntando verso ulteriori obiettivi storici, come quello di dotare la città di un nuovo ospedale in sostituzione di quello obsoleto di Palazzo del Merenda e la creazione di un istituto per la costruzione delle case popolari, il cui statuto venne approvato dal Consiglio comunale fra il dicembre 1909 e l’inizio dell’anno seguente.
“Piccolo mondo moderno”
L’atmosfera da “bella époque” di periferia sovrastava le inquietudini (determinando una condizione psicologica simile a quella raccontata nel libro di Fogazzaro uscito proprio in quegli stessi anni) e arricchiva di meraviglia la scoperta dei prodigi del progresso: l’automobile, il telefono, le macchine volanti. Tutto sembrava per la prima volta a portata di mano e pure la mondanità apriva lo sguardo su frontiere lontane. Oltre ai cartelloni del Teatro comunale e degli altri luoghi di spettacolo, allo sferisterio di Porta Cotogni per il giuoco del pallone, alle gare di tiro e alle corse equestri, ciclistiche e podistiche organizzate nel Giardino Pubblico, ai concerti dalle bande, ai primi cinematografi, ai ritmi dei caffè, ai riti delle “case chiuse” e alle discussioni con bevute sui tavolacci delle osterie; oltre a questo, il panorama cittadino si arricchì di eventi straordinari come l’arrivo nel campo di marte del Circo “Wild West” di Buffalo Bill. Il 9 aprile 1906 consegnò alla città uno spettacolo fatto di pellerossa, bisonti, pony express e assalti alla diligenza, con il leggendario cow boy William Frederick Cody acclamato dai 10 mila spettatori assiepati nelle tribune dell’arena montana (e smontata) nell’arco di un giorno.
Mentre il tramway continuava a sbuffare lungo i binari che collegavano Forlì a Ravenna e a Meldola alla velocità media di 19 chilometri all’ora e le biciclette si affermavano come mezzo di locomozione di massa in Romagna, sulle strade battute e sugli acciottolati urbani comparvero le automobili. La prima vettura forlivese a motore a scoppio fu una Bianchi, immatricolata nel 1903 dalla famiglia Orsi Mangelli, evidente status di una delle famiglie più facoltose della nobiltà. I veicoli a motore stavano conquistando l’immaginario collettivo. Il loro passaggio attirava curiosità, la sosta creava crocchi di persone. Il fascino dei congegni meccanici veniva esaltato da costi inaccessibili mentre l’eco delle imprese mondiali, come il raid da Parigi a Pechino del 1907, ammantavano le scocche d’un riverbero avventuroso. Poi c’era il mito della velocità urlato dalle avanguardie intellettuali e che avrebbe alimentato il “Manifesto del Futurismo” di Marinetti. C’erano inoltre ragioni di efficienza e di costi, tanto che subito emerse il vantaggio del trasporto su gomma per i servizi di carattere pubblico. Il 3 gennaio 1910 l’attenzione di mezza Italia si concentrò sull’apertura del collegamento automobilistico postale e passeggeri fra Pontassieve e Forlì. Tempi pionieristici per i piloti che dovevano fare i conti con strade polverose o infangate, sobbalzi e slittate. Successivamente furono attivate altre linee, una per Santa Sofia e un’altra per Forlimpopoli e Bertinoro.
Mentre la corriera si apprestava a sostituire la diligenza postale, un’altra invenzione moderna, il telefono, spodestava il servizio telegrafico dal ruolo di unico attore delle comunicazioni a distanza.
Se il telegrafo aveva cominciato a battere i suoi ritmi dopo il 1861, parallelamente all’arrivo a Forlì della ferrovia, il telefono squillò grazie all’impianto eseguito nel 1907 dalla “Società Telefonica di Romagna” che mise in collegamento con “fili nudi” un esiguo numero di abbonati alla nascente rete nazionale attraverso linee interurbane che raggiungevano Bologna, Ravenna, Rimini, Cesena, Faenza e Imola. Si trattava di uno sviluppo ancora iniziale e molto lento, con una connotazione “elitaria” per le utenze private e “sociale” per il collegamento fra i luoghi.
Quell’anno, il 1910, s’era aperto in modo particolare per l’eccitazione determinata dal passaggio vicino alla terra della Cometa di Halley. I forlivesi la videro per la prima volta il 25 gennaio. Con la puntualità di sempre, il cronista Filippo Guarini riportò la notizia nel suo Diario manoscritto precisando che nei giorni precedenti la nebbia aveva impedito la visuale: “E’ sotto Venere, con un sensibile cannocchiale da teatro si ammira la coda luminosa lunghissima, incurvata un poco verso sinistra. Siccome si vede bene anche a occhio nudo, moltissimi vanno nelle piazze e anche fuori di porta per guardarla con agio.” Il passaggio ravvicinato alla terra della stella dalla lunga scia era atteso per la notte fra il 18 e 19 maggio e, secondo qualcuno, avrebbe ammorbato il pianeta coi gas venefici presenti nella coda. Malgrado le tantissime dichiarazioni di infondatezza, paure ancestrali fecero breccia nel mondo e pure a Forlì. Il 12 maggio la stella apparve in tutto il suo splendore distintamente verso le tre del mattino “dal lato di levante, dietro al campanile di San Mercuriale”, raccontava ancora Guarini: “E’ bellissima, e con lunga coda ma molto in basso sull’orizzonte”. Intanto nel mondo echeggiavano segnali sinistri. Bufere di neve in Italia e Francia e temperatura da sol leone a Pietroburgo. Il calendario non concedeva ormai più tempo a illazioni e parole perché la notte fra il 18 e il 19 maggio finalmente arrivò con una doppia sorpresa: il mondo non finì e la cometa non apparve perché il cielo rimase coperto dalle nuvole. Il resoconto giornalistico di “Critica cittadina” raccontava la fine della paura: “La Cometa ch’è stata causa innocente di tante paure e che ora sta allontanandosi da noi con la rispettabile velocità di 270000 km a l’ora, come desiderosa di rassicurare con questo i timidi mortali sulle sue oneste intenzioni, aveva richiamato nella notte tra mercoledì e giovedì scorso una vera folla che popolò fino all’alba le vie principali, le piazze, i giardini e soprattutto i caffè e i ristoranti, e che col pretesto di festeggiare la fine del mondo rinnovò per qualche ora un tardo ma allegro e rumoroso carnevale. E nessuno se n’ebbe a male con la Signora Cometa pel mancato spettacolo: tanto un divertimento – o il pretesto per divertirsi – essa l’aveva dato; e questo era l’importante: la fine del mondo dopo tutto era superflua. All’alba poi tutti tornarono a letto, ben grati a la Cometa della notte di baldoria”. In quelle ore concitate avvenne anche un parapiglia dentro al Duomo dove un gruppo di giovani fece irruzione fra i fedeli in preghiera spargendo liquido maleodorante e sparando una castagnola. Non era ancora passato il ciclone di emozioni che la città si preparò ad un altro evento in qualche modo “speciale”. Nella giornata del 18 maggio era scattata da Milano la seconda edizione del Giro d’Italia, la gara ciclistica nazionale nata l’anno precedente anche per volontà del giornalista forlivese Tullo Morgagni. La terza tappa di 345 chilometri da Bologna a Teramo portò i corridori in terra di Romagna e costrinse molti a Forlì a un’altra levataccia per assistere al passaggio di nomi già divenuti leggendari come quelli di Luigi Ganna e Jean-Baptiste Dortignacq. La carovana transitò fra il lusco e il brusco con i primi ciclisti che apparvero verso le sei e mezza.
Allo scoccare del passaggio di decennio risale l’inizio degli esperimenti in campo aeronautico. Alcuni appassionati tentarono la costruzione di un piccolo aeroplano denominato “Forlivese” che, però, non riuscì ad andare oltre qualche sobbalzo. Era il 1911. Banco di prova fu il Campo di Marte lo stesso luogo, chiamato anche Piazza d’Armi, dove nel maggio dell’anno precedente lo svizzero Emile Taddeoli a bordo di un “Blériot” e il romagnolo Luigi Massari su un “Demoiselle”, proposero degli “esperimenti di aviazione” nel corso dei quali era avvenuto il decollo del primo aeroplano nella città romagnola. Le cronache d’epoca testimoniano anche dell’entusiasmo per i primi voli. Come il passaggio, nel settembre 1911, del raid indetto da “Il Resto del Carlino” lungo la rotta Bologna, Venezia, Rimini, Bologna. Oppure dell’emozione, un paio d’anni dopo, per la presenza nel cielo sopra San Mercuriale di un dirigibile militare. Non mancarono poi spettacoli ed esibizioni, così come avveniva nelle città maggiori, con piloti impegnati in giri della morte e in evoluzioni acrobatiche. Lo scoppio della Prima guerra mondiale e l’ingresso dell’Italia nel conflitto nel 1915 determinarono una forte spinta all’interesse militare per l’aeronautica. Fu nella scuola dell’esercito che si formarono i primi piloti professionisti forlivesi, fra i quali Luigi Ridolfi. Nato a Pievequinta nel 1894, volontario nel Genio, imparò a volare a Milano e nel 1915 era già istruttore della Caproni. Partecipò alla guerra e terminato il conflitto passò all’aviazione civile. Il 2 agosto 1919 rimase vittima, insieme al giornalista forlivese Tullo Morgagni, di un incidente aereo nei pressi di Verona.
Fra gli eventi sportivi e mondani del periodo precedente la Grande guerra vanno annoverate anche le prime sfide di un nuovo sport popolare, pronto a trovare larghi consensi nel nostro paese: il football. Le prime sfide di calcio si consumarono nel prato retrostante la Palestra del Campostrino, tempio della ginnastica e casa della società “Forti e Liberi”, proprio di fronte al cantiere di costruzione del nuovo ospedale.
Anni infuocati
Come raccontato in precedenza, l’idea di spostare la statua della Beata Vergine dal centro della piazza e di sostituirla con un altro simbolo aveva animato dibattiti e confronti, determinando forti tensione soprattutto nel 1905 quando il progetto di sostituirla con una fontana venne avviato e bloccato da una grande mobilitazione popolare e dall’intervento prefettizio.
La questione poggiava su radici più profonde perché all’indomani della morte di Aurelio Saffi avvenuta il 10 aprile del 1890 il Consiglio comunale approvò una serie di decisioni per onorare la memoria del Triumviro. Fra queste l’intitolazione della piazza principale e la scelta di erigere al centro di questa un monumento a lui dedicato. A tale scopo fu lanciata una sottoscrizione pubblica che, partita proprio con un fondo comunale e pieno entusiasmo, si arenò nelle secche della drammatica crisi economica che colpì il territorio forlivese, come il resto d’Italia di fine Ottocento, e che divenne asfittica dopo il fallimento della Banca popolare di Forlì. La situazione di stallo nella raccolta fondi non venne sostanzialmente modificata dalla devoluzione di qualche offerta, anche perché dall’inizio del nuovo secolo l’attenzione cittadina fu attirata dalle situazioni ormai insostenibili in cui versava l’ospedale civico, sostenute dalle denunce dei medici, dalla volontà politica degli amministratori e dalla consapevolezza degli utenti. Cominciarono così ad essere sempre più numerose le iniziative organizzate per raccogliere fondi pro-ospedale, dalle corse ai Giardini pubblici fino ai concerti musicali e agli spettacoli, senza dimenticare le donazioni alla memoria. Una statua per Saffi non figurava più fra le priorità tanto che l’attacco principale al simbolo religioso presente in piazza, sintomo dello spirito anticlericale radicato anche nella nuova classe dirigente, avvenne per enfatizzare un’opera di carattere sociale e igienico come l’acquedotto.
A imprimere un cambiamento nello scenario contribuirono i fatti dell’ottobre 1909 quando anche in Romagna s’infiammò la protesta contro la fucilazione avvenuta a Barcellona dell’anarchico Francisco Ferrer. Un tumulto clamoroso scoppiò proprio a Forlì e intercettò i più acerrimi sentimenti anticlericali con l’assalto alla colonna della Beata Vergine del Fuoco. Il 4 ottobre era stata convocata una manifestazione di protesta durante la quale presero la parola l’onorevole repubblicano Giuseppe Gaudenzi e i socialisti Francesco Bonavita, Aurelio Valmaggi e un giovane, Benito Mussolini, che impose la sua irruenza. Mussolini era originario della vicina Dovìa di Predappio. Dopo esperienze fuori dalla Romagna e all’estero (dal 1902 al 1904 espatriò in Svizzera per sottrarsi alla leva militare mettendosi in evidenza per la propaganda anticlericale e come sindacalista rivoluzionario; tornato in patria e amnistiato, lavorò come maestro in varie province, quindi fu a Trento con Cesare Battisti, segretario della Camera del Lavoro e giornalista prima di essere espulso dai confini asburgici) era tornato nella terra d’origine nel settembre del 1909, convinto della necessità di improntare in senso rivoluzionario la linea del socialismo italiano. A Forlì aveva ritrovato il padre Alessandro che, rimasto vedovo, si era trasferito in città e qui si era unito con Anna Lombardi, vedova Guidi, che gestiva l’osteria del Bersagliere in via Ravegnana. La situazione familiare del padre rappresentò l’occasione per Benito di incontrare la figlia della nuova compagna, Rachele Guidi, con la quale si unì, ebbe figli e poi sposò con rito civile nel 1915.
All’inizio del 1910 la sua carriera locale decollò con la nomina a Segretario della Federazione Socialista forlivese e alla direzione del giornale “La Lotta di Classe”. La linea di Mussolini fu dura, decisa, intemperante, con articoli, azioni e discorsi al confine con l’eversione come documenta, fra l’altro, un ritratto del pittore Pietro Angelini che lo raffigura in arresto al termine di un comizio. Nel primo numero del giornale sotto la sua direzione, quello del 9 gennaio 1910, scrisse: “Forlì, che fu in passato città di forti entusiasmi, rimbecillisce a perdita d’occhio fra il ballo, lo sport, la lettura ricostituente dell’Amore illustrato e la protezione della massoneria socialoide. Propongo che si scambi lo stemma cittadino: al posto dell’aquila si metta un grande specchio e un imberbe ben pettinato che vi si rimira grattando una chitarra”.
La rappresentazione della linea impressa da Mussolini anche nei confronti dei “cugini” della sinistra mazziniana veniva offerto dal giornale satirico “E Pestapevar” che in una vignetta sotto indicava con parole dialettali il direttore della “Lotta di Classe” come “il capo dei socialisti che tanti impegna col suo giornale e la sua propaganda i repubblicani di Forlì”. I rapporti fra le forze popolari andavano sempre più fra alti e bassi. Da un lato rotture, dall’altro azioni comuni. Alla prima serie appartiene, sempre nel 1911, la crisi nel sindacato. Come effetto della contrapposizione insorta nella conduzione della lotta per l’utilizzo delle macchine trebbiatrici, la conflittualità nel sindacato unitario fra socialisti e repubblicani divenne tale da portare al distacco degli iscritti legati al Pri che diedero vita alla Nuova Camera del Lavoro. Quella originaria rimase da quel momento a guida socialista. Alla seconda tipologia, le vibranti proteste contro il governo e la monarchia per la guerra di Libia. Capi-popolo dei fatti forlivesi, i più altisonanti nel panorama nazionale, furono Benito Mussolini e Pietro Nenni che in quel ricopriva a Forlì un incarico di rilievo nella Nuova Camera del Lavoro (il politico faentino sarebbe diventato in seguito uno dei leader del movimento socialista italiano del Novecento).
Ma riprendiamo il filo della narrazione dallo sfregio alla colonna della Beata Vergine del Fuoco. Dopo l’assalto, le condizioni precarie in cui era stato ridotto il manufatto indussero il Comune a provvedere al disallestimento. L’alta stele (ricollocata circa vent’anni dopo accanto al Duomo) fu smontata lasciando la piazza spoglia. Il vuoto riaprì l’ipotesi del monumento di Saffi. A bloccare ulteriormente ogni velleità intervenne la vedova di Aurelio, Giorgina Craufurd, che in coerenza col pensiero del marito, propose di impegnare tutte le offerte accantonate da anni con l’obiettivo di costruire una statua nella realizzazione di una moderna struttura sanitaria della quale Forlì aveva bisogno essenziale. Così avvenne e l’ospedale “Aurelio Saffi” (che successivamente prese il nome di “G . B. Morgagni” e che oggi sede del Campus universitario) fu approntato fra il 1912 e il 1915, mentre la statua al grande uomo del Risorgimento sarebbe stata realizzata nel 1921 e grazie a una donazione del celebre tenore Angelo Masini.
Altre vicende animavano la scena. Il 4 dicembre 1909 giunse la notizia da Roma della morte di Alessandro Fortis. A Forlì la notizia destò clamore ma il Comune decise di non partecipare in alcun modo alla condivisione del lutto e alla commemorazione. Niente bandiere abbrunate o a mezz’asta, nessun manifesto e iniziative. Lo stesso sindaco Giuseppe Bellini, amico personale del defunto benché su sponde politiche distanti e avverse, quando decise di partecipare alle esequie comunicò che lo avrebbe fatto a titolo personale e non in qualità di rappresentante dell’istituzione e della città.
Il funerale venne celebrato a Roma, in modo solenne e senza funzione religiosa, anche se fonti archivistiche hanno attestato avvicinamento e conversione alla religione cattolica, con tanto di partecipazione ai sacramenti in punto di morte. Fra i più significativi segni di omaggio, oltre a quelli di casa Savoia, la stampa nazionale riportò quelli del Presidente della Camera, la reverenza del mondo forense e i saluti fraterni della Massoneria alla quale era affiliato. Terminata la cerimonia funebre, il feretro rimase al cimitero del Verano in attesa della traslazione a Forlì nella tomba di famiglia, sotto le arcate del Monumentale. Durante la cerimonia nella capitale, il sindaco Bellini tenne per un certo tratto i cordoni del carro funebre trainato da cavalli. La sua presenza e il segno di partecipazione fra le autorità non passarono inosservate a presenti e giornalisti, tanto che al ritorno in città questo comportamento venne duramente ripreso e censurato. Le conseguenze sul piano politico non si fecero attendere e Bellini, processato al Circolo Mazzini per il suo comportamento, dovette disciplinatamente rassegnare le dimissioni da primo cittadino. Ciò avvenne all’inizio del 1910 e prosindaco diventò Giuseppe Gaudenzi. L’episodio contribuisce a far emergere due aspetti. Il primo è il carattere intransigente della politica del periodo, rigorosa e spietata anche di fronte alla morte nei confronti di coloro che venivano considerati traditori. L’altro elemento è la conferma del potere assolutamente dominante di Gaudenzi in questo torno di tempo.
Già animato dalle lotte agrarie e nel mondo sindacale il clima stava surriscaldandosi.
L’occasione offerta di manifestazioni nazionali per il primo cinquantennio dell’Unità d’Italia, festeggiate il 17 marzo 1911, restituisce un quadro della situazione. Le istituzioni omaggiarono l’anniversario tiepidamente, limitandosi alla sola esposizione del Tricolore mentre le forze della sinistra scesero in campo con manifestazioni pubbliche. Gli uomini di Gaudenzi, ad esempio, organizzarono un incontro sui valori risorgimentali e repubblicani nel Teatro comunale cui seguì un concerto di fanfara e una protesta anti-monarchica sotto la Prefettura. I socialisti, invece, decisero di festeggiare lontano da quella data e per bocca del loro acceso leader Benito Mussolini, polemizzarono contro casa Savoia e ricordando pagine per loro gloriose di insurrezioni ottocentesche come la Comune di Parigi. La differenziazione fra rappresentanti della corona e i maggiori partiti popolari divenne un tratto distintivo e il dualismo esplose platealmente in occasione della Festa dello Statuto, la festa ufficiale del Regno in programma ogni anno la prima domenica di giugno. Una parata militare in piazza, al mattino, anticipò il “Corso dei Fiori” del pomeriggio. Festoni, drappi e ornamenti decoravano edifici e strade. La Banda militare attendeva in Piazza, quella “Autonoma Cooperativa” davanti a Santa Lucia. Alle ore 18 partì la sfilata composta da quattro automobili, una ventina di carrozze, carretti e una bicicletta. I mezzi adornati solcavano il pubblico fra lanci di petali. La piazza si riempì e quando la Banda militare scoccò l’attacco della “Marcia Reale” le note furono coperte da fischi e i musicisti si dovettero ritirare. Intanto il popolo sollecitò i corpi bandistici a intonare l’Inno di Garibaldi che, suonato e risuonato, incendiò gli animi scatenando parapiglia. L’ordine fu riportato a fatica e il programma nazionale poté proseguire con un rinfresco per 200 invitati in Prefettura all’epoca in un’ala del Municipio. A venare di tristezza quell’estate che si stava caricando di tensione (e che sarebbe culminata con gli scontri in settembre contro la spedizione militare italiana in Libia) giunse 30 luglio 1911 la morte di Giorgina Craufurd, moglie di Aurelio Saffi, grande donna del Risorgimento e motore dell’emancipazione femminile. Poi arrivò l’ondata di proteste contro la spedizione italiana in Libia. Le tensioni di carattere internazionale che avevano agitato l’estate del 1911 nelle acque del Mediterraneo sulle sponde del nord Africa, si acuirono sul fronte interno al momento in cui, il 19 settembre, nel Regno d’Italia venne mobilitato l’esercito. A distanza di neppure una settimana le voci di un imminente intervento italiano si rincorrevano nelle piazze della penisola e trovarono conferma nell’ultimatum consegnato all’Impero ottomano il 28 settembre. Iniziava la guerra per Tripolitania e Cirenaica. I fatti erano stati preceduti da minacce di scioperi e manifestazioni in varie parti d’Italia. In prima linea stava Forlì con Mussolini che già all’inizio d’agosto aveva lanciato appelli alla mobilitazione contro possibili avventure militari. Sulla questione non aveva mollato, insistendo a scritti e a parole. Il momento della lotta sembrò concretizzarsi il 26 e 27 settembre, nelle ore cruciali, con la Confederazione Generale del Lavoro che proclamò uno sciopero generale. L’azione sindacale non ebbe successo tranne che in pochi luoghi fra i quali, il principale, fu Forlì. In città, uniti dall’antimilitarismo, dall’avversione ai Savoia e dal rifiuto delle logica coloniale repubblicani, socialisti e anarchici riconquistarono coesione. La cronaca di quelle ore consegnò alla memoria l’assalto alla stazione ferroviaria con l’occupazione dei binari mediante predisposizione di barricate (l’obiettivo era bloccare i treni e quindi evitare la partenza dei richiamati alle armi), l’occupazione dello zuccherificio Eridania, atti di sabotaggio ai pali telegrafici, la mancanza di illuminazione notturna per lo sciopero degli operai dell’azienda municipalizzata del gas. Non vi furono però fatti di sangue. Alla testa delle azioni, come ricordato in precedenza, Benito Mussolini e Pietro Nenni che furono arrestati il 14 ottobre. Le accuse: attentato alla libertà di lavoro, resistenza alla forza pubblica, eccitamento all’odio di classe. Condannati in primo grado, essi attesero in carcere l’appello che fu dibattuto nel febbraio del 1912 e decretò a loro carico pene lievi.
La vasta eco dell’esito dello sciopero forlivese accrebbe nel Paese la fama di Mussolini e, a procedimento giudiziario concluso, contribuirono a spianargli la strada verso il vertice del Psi. Nel luglio 1912, al congresso di Reggio Emilia, conquistò un posto fra i maggiori dirigenti del partiti e nel mese di dicembre ricevette la direzione dell’“Avanti!”, ragione per la quale si trasferì a Milano, passando la direzione della “Lotta di Classe” a Ugo Barni.
Tuttavia il suo rapporto con Forlì e la Romagna non venne meno, sia per le visite che i suoi conterranei cominciarono a fare a Milano, sia per la capacità di essere punto di riferimento della linea rivoluzionaria e classista. Singolare è il riverbero che questo ebbe nella tradizione romagnola di affidare nomi politici ai propri figli, con diversi “Benito” (rossi) ispirati all’estroso rivoluzionario predappiese registrati negli uffici anagrafe della terra di origine, ben prima della dilagante ondata di “Benito” (neri) che avvenne in tutta Italia durante gli anni del fascismo in onore del “duce”. Rosso e nero erano anche i colori della nuova bandiera di cui si dotò, nel 1913, la sezione socialista di Dovìa con i compagni che chiesero all’illustre compaesano di dettare il motto. Mussolini accettò e fece scrivere sul vessillo ora in esposizione permanente alla Casa natale Mussolini, a Predappio, la frase “Fate largo che passa il lavoro”.
Sul versante politicamente maggioritario della dimensione forlivese proseguiva caparbiamente l’opera di governo e di indirizzo esercitata dall’onorevole Giuseppe Gaudenzi. La sua egemonia venne confermata nella tornata in occasione delle elezioni politiche del 26 ottobre 1913, le prime a suffragio quasi-universale maschile. La legge varata l’anno precedente dal quarto governo Giolitti, sostituì quella del 1882 (con modifiche apportate nel 1891) e ampliò il suffragio a tutti i cittadini maschi che avessero compiuto 30 anni o che, se minori di quella soglia d’età, avessero un reddito di almeno 19.20 lire oppure la licenza elementare o aver prestato il servizio militare. Il corpo elettorale si ampliò passando dal 7% al 23% della popolazione. Il sistema era di tipo maggioritario e fu impiegato solo in questa legislatura. Nel 1919 la legge fu sostituita da una nuova che decretò l’estensione del diritto di voto a tutti gli uomini maggiorenni (21 anni) con sistema proporzionale.
Nelle politiche dell’autunno 1913 si trovarono contrapposti, nel collegio di Forlì, il repubblicano Gaudenzi e l’intransigente socialista Mussolini, con il primo che vinse largamente conquistando 4.536 contro i 1.425 dell’avversario. Pure in questa occasione, vista la candidatura in un collegio considerato blindato per il Pri, l’astro di Mussolini non risentì effetti negativi malgrado la sconfitta. Anzi, il risultato nazionale e la “verve” oratoria (che lo portò a definire la città come “Repubblica pannocchiesca” declinando in tal modo il soprannome della famiglia Gaudenzi conosciuti come “I Panòcia”) fu tale che all’attività giornalistica e all’azione politica furono riconosciute le ragioni della buona affermazione nazionale dei socialisti che determinò un aumento dei seggi in Parlamento. Il risultato delle urne non lasciò comunque margini alle interpretazioni sul piano locale e la leadership di Gaudenzi ne uscì sempre più forte. Fu con lo scoppio della prima guerra mondiale e la posizione peculiare che assunse sul da farsi, posizione non più in sintonia con l’umore di gran parte del mondo repubblicano, che la sua autorità cominciò ad essere minata. Prima, però, Forlì fu nuovamente protagonista nello scenario nazionale di un’altra grande ondata di protesta: quella della Settimana rossa.
Una rivoluzione effimera
La fiammata rivoluzionaria si consumò fra il 7 e il 14 giugno 1914. Fu una sommossa particolare, intensa e velleitaria, che coinvolse famiglie politiche diverse, unite dal collante dell’antimilitarismo, dell’avversione alla monarchia e da recrudescenze anticlericali. Iniziò con l’impeto della rivoluzione ma nell’arco di pochi giorni l’illusione svanì. Per comprenderne contenuti e dinamiche è necessario partire dalle proteste contro l’iniziativa coloniale in Libia e la guerra Italo-Turca di tre anni prima. Nel maggio del 1914, il presidente del consiglio Giovanni Giolitti rassegnò le dimissioni indicando al re il nome di Antonio Salandra, uomo della destra liberale, quale suo successore. Come aveva già fatto in passato, Giolitti incoraggiava un’esperienza conservatrice con la prospettiva di farla logorare per tornare con più forza a impugnare il timone del governo, orientando la barra a sinistra. Il progetto non ebbe successo perché con le acque molto agitate a causa delle proteste anticoloniali e l’aggravarsi della situazione economica, la destra al potere sostenuta da clericali e nazionalisti inasprì gli animi, lasciando spazio ai “falchi” di ogni fazione. Inoltre, in quelle settimane primaverili il quadro sindacale e politico risentiva delle forti turbolenze collegate all’agitazione e alle rivendicazioni di sciopero della potente categoria dei ferrovieri. Si arrivò così ai fatidici sette giorni. Tutto ebbe inizio con le manifestazioni appunto contro la guerra in Libia, indette unitamente da socialisti, repubblicani e anarchici per domenica 7 giugno, giorno in cui si celebrava la Festa dello Statuto. Simbolo della protesta era il sostegno a due militari ribelli: Augusto Masetti (anarchico, divenuto un eroe per aver sparato a un superiore in segno di ribellione) e Antonio Moroni (inviato in una Compagnia di disciplina per le sue idee). Per reclamare la liberazione di Masetti e Moroni e per chiedere la soppressione delle Compagnie di disciplina vennero lanciate iniziative di protesta prontamente vietate dalle autorità. Quel giorno, ad Ancona, si tenne un comizio presso la sede del Partito repubblicano “Villa Rossa”. Intervennero Pietro Nenni (già animatore a Forlì delle proteste del 1911 e divenuto direttore del settimanale repubblicano marchigiano “Il Lucifero”) e il leader anarchico Errico Malatesta, rientrato in Italia dopo un lungo esilio. Al termine delle orazioni avvennero degli scontri nel corso dei quali i carabinieri aprirono il fuoco sui manifestanti uccidendo tre persone (due repubblicani e un anarchico) e ferendone altri. La notizia dell’eccidio si propagò rapidamente in tutta la penisola provocando un’ondata di scioperi e di agitazioni. Se nell’Italia centrale, in particolare, il moto aveva assunto una fisionomia a geografia variabile – incidenti gravi a Firenze, Roma e, nell’Emilia, a Imola, Parma e in provincia di Bologna – fu in Romagna che lo sciopero assunse forma rivoluzionaria. A Forlì, nella giornata dell’8 giugno venivano affissi manifesti per protestare contro i fatti di Ancona. Bandiere abbrunate comparvero al balcone del Municipio e alle sedi repubblicane. Al mattino di martedì 9 giugno iniziava lo sciopero generale. Chiuse tutte le botteghe, gli opifici, le osterie, gli uffici, gli spacci dei sali e tabacchi, mentre sulle porte comparivano scritte come “Protesta contro gli assassini del popolo”. Bloccate la stazione e le Poste. Nel pomeriggio i muri furono tappezzati di altri manifesti contro la borghesia e i Savoia. Alle ore 17 in Piazza Vittorio Emanuele (oggi piazza Saffi) si tenne un grande comizio. Ad alternarsi come oratori furono il sindaco Giuseppe Bellini, il sindacalista Armando Casalini e il socialista Aurelio Valmaggi. Nella notte i fanali della civica illuminazione rimasero spenti per l’adesione allo sciopero dei dipendenti dell’Officina del gas. Mercoledì 10 giugno, Forlì risultava isolata, priva di giornali e notizie. In città non mancarono assalti e sfregi ai luoghi sacri, con incendio di una porta di San Mercuriale e danni alle chiese di S. Lucia, del Duomo e dei Cappuccini di via Ravegnana. La truppa di stanza in città di circa trecento uomini mantenne precauzione e timore, perché ogni intervento di repressione e sicurezza (come per gli incendi) fu accompagnato da attacchi e sassaiole. L’iniziativa venne ripresa giovedì 11 giugno con la protezione alla ripresa delle attività delle Poste, delle banche e della stazione. Anche le comunicazioni ferroviarie e telegrafiche vennero normalizzate e la carica rivoluzionaria andò calando. La comparsa a Forlì del giornale “Il Secolo” che portava la notizia del cessato sciopero in tutta Italia, ordinato dalla Confederazione Generale del Lavoro, divise gli animi. Da un lato c’era chi voleva proseguire, dall’altro figure autorevoli come l’onorevole repubblicano Giuseppe Gaudenzi sostenevano le ragioni del sindacato e la cessazione dello sciopero. L’indomani arrivarono rinforzi militari e contemporaneamente un manifesto comune di repubblicani, socialisti, mazziniani, anarchici ed organizzazioni sindacali, informava che lo sciopero era sospeso e che il lavoro sarebbe stato ripreso. Nel discorso alla Camera il Presidente del Consiglio Antonio Salandra annunciò che per sedare la situazione nelle province di Forlì e Ravenna erano stati inviati diecimila uomini armati. Tutta la Romagna aveva partecipato alla sommossa. A Imola furono devastate stazione e uffici pubblici; stessa sorte per lo scalo ferroviario a Castelbolognese mentre a Faenza l’attacco alla stazione fu prevenuto dalle forze dell’ordine che impedirono pure tentativi di forzare le porte del duomo e di altre chiese. Attacchi alle chiese, e ai punti di riscossione del dazio, anche a Cesena che risultava isolata per interruzioni telegrafiche. Disordini a Rimini, con tentativo di invadere la stazione e incendi alle strutture del dazio. Il fatto più grave accadde a Ravenna con l’uccisione del commissario di pubblica sicurezza Giuseppe Miniagio (unica vittima in Romagna della “Settimana Rossa”), danneggiamenti alla chiesa del Suffragio e a un circolo liberale.
Nella vicina frazione di Savio, i rivoltosi trattennero il generale Luigi Agliardi che fu liberato da uno squadrone di cavalleria. Da segnalare a Fusignano l’erezione davanti alla chiesa del Suffragio di un “Albero della libertà”, come nel periodo della rivoluzione francese e durante la Repubblica romana del 1849. Terminata l’agitazione arrivò la repressione che, però, non fu particolarmente aspra. Pietro Nenni venne arrestato e nel processo che seguì rivendicò l’importanza delle idee espresse dal movimento. Errico Malatesta invece riuscì ad espatriare. A Forlì furono citati per comparire davanti al giudice istruttore il sindaco Giuseppe Bellini e il sindacalista Armando Casalini, mentre Aurelio Valmaggi riparò a San Marino. Su di loro gravava l’imputazione “di aver eccitato la popolazione alla rivolta onde abbattere le istituzioni dello stato vigente”. Fra gli imputati di reato anche Balilla Santarelli, Aurelio Lolli (già arrestato insieme a Mussolini e Nenni nel 1911), Antenore Colonelli e Quinto Gaudenzi (fratello dell’onorevole Giuseppe Gaudenzi passato dall’ala dei repubblicani collettivisti alle fila dei socialisti). Tutto si concluse in breve tempo, in parte con assoluzioni in Tribunale in parte per l’amnistia concessa in seguito alla nascita di una principessa reale, nel dicembre 1914.
In breve tempo di quella piccola rivoluzione rimase il ricordo e molti dei rivoluzionari condivisero il destino di servire in armi il Regno d’Italia che nel 1915 entrò nella Prima guerra mondiale. Dopo l’attentato di Sarajevo e l’esplosione del conflitto, lo sguardo correva in avanti e il fronte democratico, antimilitarista e antimonarchico si frantumò definitivamente. Gran parte del mondo repubblicano subì il richiamo ideale del sogno patriottico di Trento e Trieste, della lotta agli Imperi centrali e del sogno mazziniano degli Stati Uniti d’Europa, relegando in posizione subalterne il problema di indossare la divisa del regio esercito e di combattere al servizio della corona dei Savoia. Socialisti e cattolici si trovarono uniti sul fronte neutralista, i primi per visione ideologica, i secondi per fede nella pace: entrambi preoccupati per l’inutile carneficina.
Le variabili in ballo furono comunque numerose e in questo periodo si rimescolarono le carte. Guardando dentro ai fatti si incontrano a Forlì anche repubblicani poco convinti dell’intervento (cominciando proprio da Giuseppe Gaudenzi), socialisti favorevoli all’ingresso dell’Italia in guerra (i seguaci di Benito Mussolini che per la sua presa di posizione in favore dell’interventismo venne espulso da Psi e perse la direzione dell’Avanti, continuando la sua battaglia giornalistica con l’apertura de “Il Popolo d’Italia”) e cattolici animati da spirito patriottico come quelli riuniti nella “Lega democratica cristiana italiana” fra i quali il cesenate Eligio Cacciaguerra.
Dopo la burrasca della Settimana rossa, si passò dalla disillusione per la rivoluzione mancata a un brusco cambio di piano del dibattito, del confronto, delle questioni. L’attenzione sulla scena venne strappata dai nazionalismi e dalle retoriche patriottiche. In questo periodo convulso, le idee e i progetti che per un quindicennio avevano tenuto banco a Forlì vennero sconvolti e consumati in un vortice crescente ammantato dal fuoco della Prima guerra mondiale.