
Ettore Muti
(di Paolo Cavassini)
Ettore Muti e Tonino Spazzoli. Camicia nera e camicia rossa. Lo squadrista violento, l’aviatore superdecorato, il segretario del PNF da un lato e, dall’altro, l’uomo tranquillo, il confinato, il martire della Resistenza. Il fascista tutto d’un pezzo e l’ultimo dei garibaldini di Romagna. Scelte politiche, percorsi umani, esiti e memorie postume diversissimi, addirittura incompatibili fra loro. Eppure, Muti e Spazzoli furono amici. Accomunati, oltre che da turbinose esperienze belliche e condivise militanze “diciannoviste”, da durature e tenaci amicizie comuni (prima fra tutte, quella che legava entrambi al conterraneo Leandro Arpinati), il fascista e il repubblicano si assomigliavano anche un po’: tutti e due incoercibilmente provinciali, istintivi, poco diplomatici, portati all’azione più che alla riflessione, animati dallo stesso anticonformismo alla romagnola, ma anche dallo stesso caparbio senso dell’amicizia. Un sentimento vissuto in modo integrale, quasi come una super-appartenenza, come un arcaico (e prepolitico) vincolo fra simili. Secondo Elio Santarelli, i due si conobbero verso la fine degli Anni Trenta, molto probabilmente con Arpinati come trait d’union. C’è da credere che le occasioni per incontrarsi non siano mancate neppure nell’immediato dopoguerra, come in quel Sesto Centenario dantesco (11-13 settembre 1921) in cui gli Ardito-legionari forlivesi, reduci dall’occupazione dei moli orientali di Fiume, giunsero a Ravenna sfoggiando la loro bandiera “O porto Sauro o morte” e si incontrarono – come documentato anche da fonti fotografiche – con i compagni ravennati. Comunque sia, l’amicizia fra Muti e Spazzoli (di cui restano soprattutto tracce di seconda mano, nei racconti dei testimoni o dei loro discendenti), pare essere stata particolarmente intensa nel periodo che vide la carriera politica del ravennate raggiungere il proprio apice con la nomina, nel novembre del 1939, a Segretario del PNF. «Ettore Muti – ricorda Dino Grandi nelle sue memorie – era un giovane di scarsa cultura e di altrettanto scarsa esperienza politica, ma di un brillante passato militare e di solido buon senso paesano…scoraggiò le parate coreografiche e le uniformi, decentrò il partito e accolse in massa nelle sue file, senza ostracismi o pretesa di inquisire sui loro precedenti politici, tutti coloro che avevano servito il paese in guerra, abolì il divieto grottesco della stretta di mano». E fra gli ex combattenti che vennero beneficiati da Muti con la “tessera del pane” figurano anche i legionari fiumani.
Fra questi anche Tonino Spazzoli, che la ottenne nel 1940, addirittura con l’anzianità retrodatata al 12 settembre 1919, quella dei legionari fiumani della prima ora. Tecnicamente non ne avrebbe avuto diritto, visto che il foglio di disposizioni del PNF n. 18 del 4/12/39 stabiliva che l’anzianità alla “Marcia di Ronchi” poteva essere conferita solo agli iscritti al partito (i non iscritti avrebbero dovuto fare domanda d’iscrizione, per poi ricevere solo l’anzianità al 24 dicembre 1920, data del “Natale di sangue”). Un trattamento privilegiato in cui non è peregrino intravedere l’intervento più o meno diretto del ravennate. Spazzoli, dal canto suo, non era uomo da nutrire timori reverenziali per il potente amico, nei confronti del quale, al contrario, sembra si adoperasse (forse anche in nome delle giovanili simpatie repubblicane di Muti) a una sorta di “conversione” politica, a seconda dei casi saggiandone la fede fascista con proposte più o meno provocatorie (come quella, più volte riferita negli scritti di Elio Santarelli, di convincerlo a radere al suolo palazzo Venezia col suo bombardiere, proposta naturalmente rifiutata), oppure favorendo le sue frequentazioni antifasciste (come quella con la forlivese Tina Gori, con cui Muti tenne – senza che i due si conoscessero personalmente – una lunga e, purtroppo, non ancora divulgata corrispondenza epistolare). D’altro canto, le avances di Spazzoli intercettavano, non casualmente, un periodo di crisi umana e psicologica del gerarca-aviatore: al contrario di quanto una certa narrazione agiografica (sia coeva che postuma) possa far credere, non sono rare le testimonianze che, relativamente al periodo bellico, ci restituiscono un Muti privato sempre più pessimista e deluso, esasperato al punto da lasciarsi andare a esternazioni “disfattiste” sulla deriva borghese del fascismo, sull’insufficiente condotta di guerra italiana, addirittura sullo stesso Mussolini. Finché, il 25 luglio 1943, arriverà la tanto agognata (per Tonino) caduta del fascismo. Un mese dopo, la notte fra il 23 e il 24 agosto, l’ex segretario del PNF, sarà arrestato nella sua villa di Fregene, da parte di una squadra di carabinieri: ne resterà ucciso, in circostanze rimaste tuttora poco chiarite. Nascerà, con questa morte violenta, il mito dell’eroe fascista senza macchia, “protomartire” della Repubblica sociale.
Bisognerebbe farlo conoscere a certi amici “repubblicani” forlivesi e romagnoli che si sono poi sottomessi allo strapotere antifascista comunista, rimanendovene prigionieri.