In un comunicato della Associazione Legionari e Arditi di Forlì del 23 settembre 1922 si legge: «Nella sede della Associazione Combattenti di Forlì si sono radunati oggi alle ore 15 alcuni Legionari, Arditi e simpatizzanti da varie località di Romagna per prendere accordi sui metodi di propaganda della Carta del Carnaro il cui spirito di libertà e giustizia varrebbe più che mai a riportare nelle classi e negli animi quella tanto invocata reciproca tolleranza e ad auspicare un rinnovamento nazionale quale mazzinianamente concepì con anima di italiano del risorgimento, Gabriele D’Annunzio».
Documento: la Carta del Carnaro in pdf
Ma cos’era questa Carta del Carnaro, e per quale motivo affascinava tanto degli ex combattenti di fede mazziniana? Scritta da D’Annunzio sulla traccia di un robusto canovaccio elaborato dal suo Capo di Gabinetto (il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, esponente di primo piano dell’interventismo “di sinistra”), questa costituzione-manifesto, promulgata l’otto settembre 1920, rappresenta la legge fondamentale dello Stato Libero di Fiume (o Reggenza Italiana del Carnaro) e la traduzione in termini giuridici dell’utopia politico-sociale del «fiumanesimo». Ma c’è di più: gli statuti della Reggenza esprimono uno sforzo di conciliazione fra il misticismo politico dannunziano, e la sua concezione dello Stato come costruzione “bella e utile” (evidente a partire dallo stile arcaizzante e prezioso della prosa d’arte in cui è redatta la Carta) e la concezione libertaria, sindacalista e autonomista di De Ambris, che si muoveva nella scia ideale del binomio mazziniano «libertà e associazione».
De Ambris, frontalmente avverso alla monarchia e alla sua politica “rinunciataria”, aveva addirittura ipotizzato una Repubblica del Carnaro, definizione che sulle prime pareva incontrare il gradimento dello stesso D’Annunzio. Poi, all’ultimo, il “Comandante” opterà per il termine Reggenza, soluzione linguisticamente più ricercata ma, soprattutto, meno compromettente e divisiva in un momento di forti tensioni interne all’ambiente legionario. Al di là della prudente formula istituzionale prescelta da D’Annunzio, la Carta del Carnaro si proponeva, per citare De Felice, di prospettare «agli “uomini nuovi” usciti dal travaglio della guerra una soluzione organica e al tempo stesso non meramente tecnica ma, al contrario, emotivamente suggestiva – diversa sia da quella democratico-borghese sia da quella bolscevica – in grado di rispondere alle loro inquietudini e alle loro attese di rinnovamento politico-sociale».
Innervato dalle “idee-forza” della democrazia diretta, della provvisorietà delle cariche (perfino il “Comandante” – sull’esempio dei dittatori dell’antica Roma – restava in carica non più di sei mesi), della revisione periodica del dettato costituzionale, della partecipazione dell’intera comunità (donne comprese) alla vita politica, delle piene autonomie civiche e associative, della Nazione armata formata da cittadini di ambo i sessi, della scuola aconfessionale, della proprietà privata riconosciuta non come «possesso assoluto della persona sopra la cosa…ma come la più utile delle funzioni sociali», l’ordinamento dello Stato Libero di Fiume individuava il lavoro produttivo come prerequisito personale e collettivo per l’appartenenza alla koinè nazionale. Alle organizzazioni del lavoro, organizzate in Corporazioni, spettava infatti il compito di articolare l’architettura sociale ed economica di una “società dei produttori” ispirata, come già accennato, anche al pensiero associazionistico di Mazzini e alla sua idea di integrazione fra capitale e lavoro.
Irrisa dagli avversari del «Poeta-soldato» (Francesco Saverio Nitti, ancora trent’anni dopo, la bollerà come «ridicolissima e stupidissima costituzione… documento d’ignoranza e di fatuità, degna solo di una riunione di mattoidi» ); ridimensionata come utopistica e “letteraria” dallo stesso Mussolini («Può il fascismo trovare le sue tavole negli statuti della reggenza del Carnaro? A mio avviso no. D’Annunzio…è l’uomo delle ore eccezionali, non è l’uomo della pratica quotidiana»), la legge fondamentale della Reggenza del Carnaro non sarà mai compiutamente applicata, a causa delle vicende che, a meno di quattro mesi dalla sua promulgazione, portarono al tragico finale dell’impresa di Fiume. Nonostante ciò (o forse anche per questo suo fascino di “occasione mancata”), gli innovativi principi che avrebbero dovuto consacrare la “terza via” di uno Stato sindacal-nazionale a base democratica finirono per attrarre più di un esponente di quelle forze dell’interventismo e del combattentismo di sinistra che, nel biennio 1920-1922, entrarono non raramente in sintonia con gli ex legionari e con le istanze politiche e sociali consegnate alle «Tavole della legge» di Fiume.
Come scrisse Icilio Missiroli (che pure riconosceva di non simpatizzare per le «tendenze nazionaliste» di D’Annunzio) sul «Pensiero Romagnolo»: «Fiume, oltre ad essere faro d’italianità era anche divenuto lo Stato che doveva sperimentare una Costituzione, che rovesciava in molti punti gli odierni ordinamenti per inspirarsi a quei concetti sociali, che noi abbiamo spesso propugnato e che, divenuti base di uno Stato, sia pur esso piccolissimo, potevano creare un precedente pericoloso per le Potenze conservatrici d’Europa. L’Italia andando a Fiume pone la città sotto il suo protettorato militare e cancella quello che finora è stato fatto dal Comando della Reggenza; la Carta costitutiva di Fiume, che contiene l’affermazione di principi nuovi e arditi, può essere stracciata per dar luogo a qualche Statuto, tipo Carlo Alberto, che non dia noia a nessuno».