Camicie rosse, azzurre, nere

(di Paolo Cavassini)

Nell’arroventato clima politico del primo dopoguerra, la lotta fra movimenti e partiti antagonisti è anche una guerra di simboli e di colori. Sorgono in questi anni numerose formazioni paramilitari, che si dotano di uniformi e “marchi” distintivi: una proliferazione in cui trapela, da un lato, una diffusa tendenza psicologica a riproporre, in contesti politici, regole d’ingaggio e modalità aggressive improntate all’esperienza bellica e, da un altro, il riproporsi di antichi antagonismi sotto le forme e i segni di nuove identità, di appartenenze inedite ed esteriormente riconoscibili. Non a caso, i protagonisti dell’araldica politica di queste formazioni sono labari, gagliardetti, divise, decorazioni, tutti oggetti appartenenti alla sfera semantica e simbolica militare. Fra gli indumenti preferiti da questa nuova e bellicosa generazione di attivisti spicca, sia per aggirare il divieto di indossare l’uniforme militare in contesti civili, sia per la sua praticità ed economicità, la camicia, al cui colore, più o meno rafforzato da segni distintivi specifici, si affida la massima pregnanza identitaria. I primi ad indossarne una (rigorosamente azzurra, nel colore di casa Savoia) furono i gruppi nazionalisti dei «Sempre pronti per la Patria e per il Re» (o, più semplicemente «Sempre Pronti»), non impropriamente annoverati fra i precursori dello squadrismo fascista. Infatti, le squadre degli ultras monarchici, composte per lo più da studenti, rampolli della piccola e media borghesia ed ex volontari di guerra, vedono la luce a Bologna già nel 1919. Sull’esempio degli agguerriti “figli di papà” petroniani (nelle cui file militerà anche il sedicenne Leo Longanesi) sorgeranno, fra il 1920 e il 1923, anno della fusione nazionalfascista, numerose legioni di «Sempre Pronti», vestite con elmetto Adrian, camicia o maglione dolcevita azzurro con l’aquila, nella versione imperiale romana (simbolo dell’Associazione nazionalista italiana) o con lo “scudo Savoia”, sotto il taschino sinistro. Fra gli avversari più coriacei delle camicie azzurre (come avvenne nei sanguinosi tafferugli dell’aprile 1922 a Ravenna, in cui si contarono numerosi feriti, quasi tutti di parte nazionalista) figuravano i membri delle organizzazioni giovanili del Pri, che dalla primavera del 1921 si erano organizzati in «nuclei d’azione» armati con funzione di autodifesa, le cosiddette “Avanguardie Repubblicane”. Organizzati nel Forlivese da Mario Santarelli e Icilio Missiroli (con l’immancabile supporto attivo di Tonino Spazzoli), gli avanguardisti repubblicani indossavano una divisa ispirata direttamente all’epopea risorgimentale: camicia rossa (di solito con un’edera verde portata sul lato sinistro) e fazzoletto bianco, o cravatta bianca, al collo. A Treviso (anche per rimarcare quell’aspirazione all’unità delle forze proletarie che in Romagna cede il passo a un tenace antagonismo fra repubblicani e socialisti, esacerbato dalla polemica fra interventisti e neutralisti o “rinunciatari”) i giovani repubblicani si fanno chiamare “Avanguardisti rossi”. E proprio con la camicia da avanguardista (impreziosita da una filettatura verde, ad imitazione delle tuniche garibaldine), e non con una camicia nera, come erroneamente si può credere (nelle foto in bianco e nero il rosso acceso e il nero risultano spesso indistinguibili), Spazzoli parteciperà all’occupazione legionaria di porto Sauro, a Fiume, nel luglio del 1921. E, sempre con la stessa divisa vorrà essere ritratto, due anni più tardi, nella tessera dell’Associazione nazionale volontari di guerra, a confermare un tenace, inscindibile, nesso fra il suo “trincerismo” e un volontarismo di matrice neo-risorgimentale e repubblicana. E le camicie nere, quelle nere davvero? Stando a Italo Balbo (nel suo «Diario 1922»), l’indumento-icona del ventennio fascista, già «costume ordinario del lavoratore di Romagna», fece la sua prima comparsa come divisa militare durante la “Marcia su Ravenna” del 12 settembre 1921. Al di là della datazione del suo debutto sulla scena politica, appare molto più probabile che la camicia nera, più che all’abbigliamento da fatica dei braccianti e degli operai romagnoli, debba la sua tinta funebre al colore del corpo degli Arditi, dal cui serbatoio simbolico, peraltro, il fascismo attinse a piene mani: basti pensare al teschio col pugnale fra i denti o al saluto A noi!, già grido di guerra delle “Fiamme nere”, adottato nel Ventennio, insieme all’ Eia, eia, alalà (a sua volta “inventato” da D’Annunzio nel 1918) come formula ufficiale con cui accompagnare il saluto romano.

Questa voce è stata pubblicata in approfondimenti e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *