La politica, Forlì e il fascismo
(di Mario Proli)
Il rapporto fra Forlì e il movimento fascista non può prescindere dal fatto che colui che lo fondò e ne divenne capo, Benito Mussolini, aveva “un vissuto” forte in città e nel territorio. Non solo perché egli era nato il 29 luglio 1883 a Dovia di Predappio, in una casa colonica della valle del Rabbi a circa quindici chilometri dal capoluogo di provincia. Ma soprattutto in virtù del fatto che a Forlì Mussolini aveva vissuto, fra il 1909 e il 1912, esercitando un ruolo da leader nelle fila socialista, in particolare come esponente di punta nell’ala massimalista. Inoltre nel cimitero monumentale di via Ravegnana era sepolto suo padre Alessandro, a Forlì aveva conosciuto Rachele Guidi, prima sua compagna e poi consorte, e nel 1910 era divenuto padre di Edda. Fra manifestazioni anticlericali, scioperi e tumulti, dalla lotta per le trebbiatrici alla accesissima protesta contro la guerra il Libia, le sue gesta forlivesi (in parte condivise con l’allora giovane militante repubblicano Pietro Nenni) acquisirono rilievo nazionale tanto da far decollare la sua fama in breve tempo e portarla ai vertici del movimento socialista italiano fino alla direzione del giornale “L’Avanti!”. L’ultima tappa del lustro forlivese di Mussolini prima del trasferimento definitivo a Milano, fu la candidatura al Parlamento in occasione delle elezioni politiche del 1913 in cui sfidò, perdendo con onore, il repubblicano Giuseppe Gaudenzi. Sono note le vicende che determinarono la sua scelta interventista, la cacciata dalla direzione del giornale e dal Partito socialista, il percorso che lo vide fondare il giornale “Il Popolo d’Italia”, la partecipazione al conflitto mondiale.
Nel clima infuocato del primo dopoguerra, carico di tensione politica e sociale, di difficoltà economiche e violenza, la nuova avventura politica di Mussolini avviata con la costituzione dei “Fasci di combattimento” e la loro successiva trasformazione in partito, avvenne lontano da Forlì, con l’unico legame rappresentato dalla presenza a Milano, al suo fianco, dell’amico forlivese Manlio Morgagni, al quale aveva affidato la gestione redazionale del giornale, e di un drappello di combattenti reduci forlivesi dalla marcata connotazione repubblicana, infatuati da un miraggio anti-monarchico che Mussolini aveva paventato e che si dissolse nell’autunno del 1922.
In poche parole durante il cosiddetto “biennio rosso”, Forlì e Mussolini si ritrovarono distanti benché uniti da un passato recente, da amicizie e da alcuni punti di contatto.
In città sopravviveva il ricordo, ancora fresco, delle sue intemperanze massimaliste e dei suoi slanci anticlericali. Nel frattempo il quadro politico locale, misurato attraverso il risultato delle elezioni politiche del 16 novembre 1919, vedeva primeggiare sempre il partito repubblicano con 3.718 voti (maggioranza assoluta, pur calando di suffragi rispetto alle precedenti elezioni), il Psi conquistare 2.338 suffragi, 806 i voti alla nuova forza cattolica, il Ppi, e 463 ai Liberal-monarchici. Nonostante l’impegno del sindaco repubblicano Giuseppe Gaudenzi che tentò di tenere unito il fronte democratico, antimonarchico e antifascista, nel 1921 avvennero fatti destinati ad ampliare le distanze. Il primo fu, nel mese di gennaio, la spaccatura nel Partito socialista con la scissione al congresso di Livorno che portò alla nascita del Partito comunista d’Italia. Il Pci affondò subito radici a Forlì dove il primo congresso ebbe luogo il 24 aprile 1921 a Bussecchio, alla presenza di Umberto Terracini. Poi ci fu, nel mese di marzo, la costituzione del Fascio locale. Un altro evento determinante fu lo scontro nelle colline sopra Civitella di Romagna, in località Arpineto, che a seguito di un diverbio fra socialisti e repubblicani vide l’uccisione di un militante repubblicano. Come reazione scattò la vendetta dei militanti del Pri insieme a un gruppo di squadristi che si unì a loro. Il fatto di Civitella innescò una spirale di violenza che pochi giorni dopo vide un comunista ucciso e un repubblicano ferito a Vecchiazzano e culminò ai primi di settembre con una scena di guerra civile a Forlimpopoli che lasciò a terra due morti, un comunista e un repubblicano, oltre diversi feriti e la casa del popolo in fiamme
Giorno dopo giorno, la situazione andò deteriorandosi e la violenza divenne quotidiana, con scontri, spari, bastonature in una sorta di grande arena dove socialisti e comunisti trovarono momenti in comune, allargando il collegamento con i repubblicani in alcuni casi, come nelle manifestazioni di protesta del gennaio 1922 contro la detenzione negli Stati Uniti d’America degli anarchici Sacco e Vanzetti, contro le azioni violente delle squadre fasciste in Romagna che nel mese di luglio videro, a Ravenna, l’uccisione di dieci lavoratori in maggior parte repubblicani e la calata delle camicie nere guidate da Italo Balbo. Fuoco e manganellate fasciste cominciarono a colpire circoli in luoghi differenti fino alla sera del 6 ottobre 1922 quando una colonna di squadristi seminò distruzione e fiamme tra le case del popolo della Romagna fra il Forlivese e il Cesenate.
Il 28 ottobre, con la “Marcia su Roma” e la decisione del Re di affidare a Mussolini il governo del Paese, il fascismo conquistò il potere. A Forlì la mobilitazione delle camicie nere cominciò nel pomeriggio del 27 ottobre con le milizie fasciste pronte all’azione. Nella serata del giorno seguente presero possesso della Prefettura la cui sede all’epoca era nel palazzo municipale, verso Borgo Mazzini. Stessa sorte interessò il Comune e le Poste. Il 30 ottobre i fascisti irruppero nell’ufficio del sindaco Gaudenzi e lo obbligarono alle dimissioni. Quindi, attraverso un accordo con la Prefettura, si insediarono al comando dell’amministrazione comunale con la nomina a commissario prefettizio di un “camerata”, l’industriale Silvio Lombardini.
I conti con socialisti, comunisti e repubblicani vennero regolati dai fascisti con la violenza. Una frattura definitiva si consumò anche con quel gruppo di giovani repubblicani, in gran parte reduci di guerra, che in un primo tempo aveva dato credito alle promesse antimonarchiche e sociali di Mussolini. Il punto di non ritorno fu rappresentato delle occupazioni dei circoli e degli attacchi a militanti del Pri, in particolare dall’assassinio di due repubblicani a Forlimpopoli e del diciottenne forlivese Giovanni Arfelli. Il suo funerale venne addirittura sospeso per divieto prefettizio; ciononostante prese forma una manifestazione spontanea di donne per protestare contro la violenza fascista ma anche questa venne fermata dalla forza pubblica. Dileggio definitivo fu la presa del Circolo Mazzini che venne utilizzato come Casa del fascio prima del trasferimento di questa nei locali di Palazzo Albertini in Piazza Saffi.
Pochi mesi dopo la marcia su Roma, il 15 aprile 1923, il capo del governo Benito Mussolini decise di tornare a Forlì in visita ufficiale. Il duce giunse in treno alla stazione ferroviaria e da qui si mosse in auto recandosi in visita al Cimitero monumentale (per rendere omaggio alla tomba del padre Alessandro), in piazza Saffi, in Prefettura e, dopo una toccata a Predappio, in Comune. La visita non riuscì a sbloccare la situazione di travaglio in cui versava il fascismo locale. Anzi, sul piano politico la situazione peggiorò, tanto da sfociare a settembre nel primo commissariamento della federazione al quale ne seguirono altri. Ci provarono Evaristo Armani, Leandro Arpinati e Italo Balbo ma tutti senza centrare pienamente l’obiettivo.
Il ritorno di Mussolini nei suoi luoghi dell’infanzia e della militanza politica prebellica avvenne su un terreno sconnesso. Il dato reale risultava connotato da scarso entusiasmo. Emblematico di questa condizione suonava un passaggio giornalistico pubblicato il 30 agosto 1925 sull’organo ufficiale della Federazione fascista forlivese “Il Popolo di Romagna”: “Fino a che Forlì seguiterà a essere fascisticamente la 74a provincia d’Italia non venite tra noi, Presidente”.1
Quello della provincia di Forlì era un movimento lacerato da aspri contrasti, sottoposto commissariamenti della federazione e incapace allargare la base di consenso. Ancora, qualche anno dopo, i vertici del movimento in camicia nera forlivese tornavano sull’argomento. Correva l’anno 1927: “Un esame obbiettivo sull’azione politica del fascismo nella Provincia porta a questa affermazione di una esattezza indiscutibile: che cioè le difficoltà di penetrazione, di affermazione e di consolidamento del partito furono, agli inizi, molteplici, complesse e caratteristiche. Il fascismo ha potuto far breccia in pieno e rapidamente laddove aveva di fronte a sé resistenze rosse a fondo bolscevico … Nella provincia di Forlì il partito trovò a un dipresso tale situazione soltanto nella parte alta e nella zona riminese: non altrettanto nel cesenate e nel forlivese dove, per contro, dominava il partito repubblicano. – … – molti passarono al Fascismo: ma i pastori, i capoccia resistettero e quasi ovunque le masse repubblicane restarono avulse ed irrigidite di fronte alla nuova realtà che si andava impadronendo irresistibilmente dell’anima nazionale”2.
Non bastava l’ascesa al potere per cancellare il ricordo di cosa era stato Benito Mussolini fino a pochi anni prima. Sicuramente la Grande guerra aveva rappresentato uno spartiacque determinante nella formazione delle persone e nell’evoluzione del pensiero politico, ma il cambiamento in atto nell’ex capo dei massimalisti forlivesi appariva eclatante, in certi casi non esente da punte di imbarazzo. Come nel caso del suo avvicinamento al mondo della Chiesa.
Nei mesi in cui stava maturando l’accordo fra Stato e Chiesa, sancito con i Patti Lateranensi del 1929, si verificò un episodio che merita attenzione. Nel 1909, un tumulto anticlericale scoppiato in seguito all’uccisione in Catalogna dell’anarchico Francisco Ferrer vide fra i più animosi protagonisti della protesa il socialista Benito Mussolini appena rientrato in Romagna dopo l’espulsione dai confini dell’Austria-Ungheria. La protesta prese di mira la Colonna della Beata Vergine del Fuoco situata in posizione centrale dell’allora piazza Vittorio Emanuele e la danneggiò gravemente tanto da determinarne lo smantellamento. Il monumento trovò rifugio nella chiesa di San Filippo e la piazza rimase vuota fino allo scoprimento, nel settembre 1921, del monumento di Aurelio Saffi. In un clima politico ben differente, in pieno percorso di preparazione del Concordato, le celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario del miracolo della Madonna del Fuoco, patrona della città, offrirono l’opportunità per una riconciliazione in sede locale. I festeggiamenti iniziarono il 4 febbraio 1928 alla presenza dell’arcivescovo di Bologna Giovan Battista Nasalli Rocca e il 6 maggio la Colonna mariana venne riconsegnata alla città, con l’installazione al fianco della Cattedrale. Fra i membri del Comitato d’onore che accompagnava il ritorno della statua della Madonna del Fuoco spiccava, ovviamente, il nome di Benito Mussolini.
Uno sguardo ai numeri stilati all’epoca dalla Prefettura contribuisce a definire la situazione. All’inizio del 1928, i tesserati al Pnf della Provincia di Forlì erano circa 20 mila, a fronte di una popolazione che al censimento di qualche anno dopo, il 1931, ammontava a 430.939 residenti3. Da notare che dopo il riordino amministrativo delle Province, avvenuto a partire dai provvedimenti del 1923, il numero degli enti era salito da 75 a 92, dato che spiega la dimensione molto defilata lamentata da “Il Popolo di Romagna”.
Ciò impone una riflessione, seppur breve in questa sede, sul sistema di potere. A livello nazionale, con le leggi del 1924 – 1926 e in seguito alla riforma degli enti locali che introdusse il podestà e la consulta al posto del consiglio elettivo (leggi n.237 e n.1910 del 1926), il regime centralizzò l’assetto di potere, depoliticizzando le periferie e cancellandone il potenziale autonomistico. Il punto decisionale si trovò così collocato tra il partito fascista e la prefettura.
I comuni e le province furono di fatto declassati nel nuovo sistema di potere che risultava incardinato sul duce e sul governo, ai quali risultavano collegati i referenti territoriali, vale a dire il Pnf e le prefetture, in un rapporto comunque non paritario che poteva trovare equilibrio solo nella buona relazione fra federale e prefetto.
Anche in questo caso Forlì costituì un’eccezione. Fra nominati e commissari, la federazione fascista provinciale che nel 1925 era retta da Italo Balbo vide il passaggio, a novembre, nelle mani di Ivo Oliveti. Dopo di lui il comando passò a Carlo Scorza, poi nel 1929 all’ingegner Arnaldo Fuzzi al cui nome, in qualità di progettista, furono legate diverse opere architettoniche del regime presenti nel territorio. Quindi nel 1931 la responsabilità politica giunse nelle mani dell’onorevole Davide Fossa e infine al conte Pio Teodorani Fabbri, nominato segretario del Pnf provinciale. Con lui iniziò un periodo di stabilità, non privo di beghismo, che durò buona parte del decennio.
Anche alla guida della prefettura l’alternanza alla posizione di vertice fu animata. La cronologia dei rappresentanti del governo in questo periodo è aperta da Giovanni Antonio Merizzi (1920 – 1923), poi Giuseppe Ferrari di Caporciano (1923-1923), Ignazio Guido Podestà Lucciardi (1923 – 1926), Giovanni Battista Crispino (1926 –1928), Francesco Dentice D’Accadia (1928 –1930), Dino Borri (1930 –1935), Luigi Russo (1935 –1935), Giuseppe Toffano (1935 –1936), Oscar Uccelli (1936 – 1941).
Più lineare il clima nella “declassata” amministrazione civica. A Corrado Panciatichi, sindaco dal 1923 al 1926, seguirono i podestà Ercole Gaddi Pepoli (1926-1930), Mario Fabbri (1930-1936) e Fante Luigi Panciatichi (1936-1940). Se il travaglio del fascismo locale non consentì a nessuno di emergere (d’altronde come avrebbero potuto la “Città del Duce” avere un interlocutore differente dal duce medesimo), pure dalla prefettura non arrivò ad imporsi un potere in grado di comandare. Di fatto, fino alla sua scomparsa avvenuta nel 1931, il punto di mediazione con Roma fu il fratello Arnaldo, che era anche capo della Provincia, mentre successivamente assurse alla posizione di maggior influenza Donna Rachele, sempre più presente alle celebrazioni e manifestazioni di partito quale autorità massima in assenza del marito.
1 “Il Popolo di Romagna”, 30 agosto 1925.
2 Da Costruire, a cura della Federazione fascista forlivese, Forlì, 1927, pag. 3.
3 Il numero di iscritti al fascio provinciale è desunto dalla relazione del Prefetto al Ministero dell’Interno in data 14 febbraio 1928, custodita all’Archivio di Stato di Forlì, Gabinetto di Prefettura, busta 300.
Queste organizzazioni giovanili vivranno fin poco dopo la marcia su Roma e, specialmente in Romagna, daranno filo da torcere agli avversari, fascisti compresi.
Si guarda ancora, da Forlì, al Mussolini « tendenzialmente repubblicano» nei giorni della fatidìca “marcia”, come fa – per esempio – Mario Santarelli, il quale spera che la presa del potere dell’ ex direttore della « Lotta di Classe» venga a sboccare in una forma istituzionale repubblicana. Il discorso di Mussolini del 20 settembre ’22 a Udine toccò infatti anche certi tasti di sapore vagamente antimonarchico, che lasciavano intravedere molte porte aperte; tutto questo aveva lasciato sperare ai più ottimisti una soluzione cara ad alcuni repubblicani di Romagna ; speranza che in seguito lasciò il posto a molta amarezza e si spense nell’acqua gelida della collaborazione fra Mussolini e la monarchia, il grande capitale ed il miiitarismo.
Comunque, per quanto concerne Forlì, in occasione della “marcia” romana, Tonino Spazzoli comandò gli Arditi e i Legionari fiumani, col compito, ci precisa Icilio Missiroli, una volta che il futuro duce avesse istituita la repubblica, di occupare la caserma dei carabinieri di Via Mazzini. Purtroppo non vi sarà la repubblica, ma invece il consolidamento della monarchia. Così aveva predetto anche il Sindaco di Forlì Giuseppe Gaudenzi a Mario Mìserocchi e a Augusto Varolì, mentre armati di moschetto stavano entrando, secondo il loro solito, nel circolo
« Mazzini »: « Voialtri state rinsaldando la monarchia » disse, e l’amaro commento trovò ben presto conferma.
Cadono dunque le illusioni di ingenui idealisti e chi ha avuto tentennamenti si accorge, se ne ha voglia,che il Partito nella sua maggioranza aveva ben ragione di non credere allo specchietto per le allodole illuminato dal famoso “tendenzialismo” mussoliniano.
Perciò la battaglia deve continuare nel Partito più di prima contro le squadracce che ora la fanno da padroni in Romagna. Il 1923 è un anno da ripensare col pianto in gola, un anno che ricorda devastazioni di circoli, assassini di mazziniani, fiamme di incendi appicati alle fiorenti Case repubblicane. La potenza economica del Partito nel forlivese sta scomparendo sotto il ferro e il fuoco delle nere squadre d’azione. Tuttavia i repubblicani, dopo che erano stati quasi completamente sgominati socialisti e comunisti, rimangono ancora forti, almeno come espressione ideale e compattezza di iscritti e di simpatizzanti.
Se per ora non è possibile toglierli di mezzo con la forza, sembrano chiedersi i fascisti, tentiamo di eliminare almeno alcune delle figure più rappresentative con la lusinga e l’adulazione; portarli dalla nostra parte, non dovrebbe essere poi così difficile.
Si scomoda per l’occasione addirittura Italo Balbo, un quadrumviro della marcia su Roma ed ex repubblicano, il quale scrive una lettera appunto a Mario Santarelli e a Tonino Spazzoli nella quale fra l’altro si legge: « Noi vi cerchiamo, perché conosciamo la vostra anima e vi vogliam-o bene». La risposta dei due amici del 17 marzo 1923 è quanto mai serena, ma ben decisa e risoluta nel NO: « •••• Per l’Italia e per il Popolo, per la giustizia e per la libertà, gli interventisti intervenuti, gli oppositori tenaci del disonesto demagogismo di disonesti pastori, i fedelissimi ai principii politici, sociali, etici di Giuseppe Mazzini, son sempre pronti a combattere, a dolorare, a morire, ma modestamente come ieri».
Gli eventi precipitano giorno dopo giorno, anche se nel periodo dell’affare Matteotti si ha l’impressione che la biscia stia per rivoltarsi. Purtroppo così non è. Tuttavia a Forlì qualcuno si muove e sono ancora loro, Mario Santarelli e Tonino Spazzoli con Agenore Guberti, altra meravigliosa figura di antifascista, che vorrebbero “fermare” nei suoi uffici il Presidente del Consiglio ritenuto il maggior responsabile se non il mandante vero e proprio dell’efferato crimine. Ma alcuni maggiorenti delle Opposizioni romane bloccano sul nascere l’azione dei generosi forlivesi perché _ affermano, ci penserà il re a mettere a posto Mussolini.
Bello e fatto bene
Molto interessante e scritto bene